Crisi climatica, Nicoletti (Legambiente): «Le grandi potenze distratte, troppo impegnate a fare guerre e innalzare muri»
Il responsabile nazionale Aree protette commenta la Cop30 di Belém a dieci anni dall’Accordo di Parigi. E sull’Italia dice: «Qui l’unica urgenza sembra essere quella del Ponte sullo Stretto»
A dieci anni dall’Accordo di Parigi, la Cop30 di Belém si apre in un clima di disillusione. Solo una sessantina di leader mondiali parteciperanno al vertice, segno della stanchezza politica di fronte a una crisi climatica sempre più grave. Gli eventi estremi si moltiplicano, ma le grandi potenze restano distratte da guerre e interessi economici. Stati Uniti, Cina ed Europa appaiono divisi, mentre il Pianeta chiede con urgenza ciò che la politica continua a rinviare: azioni concrete, subito.
Ne abbiamo parlato con Antonio Nicoletti, responsabile nazionale aree protette e componente della segreteria nazionale di Legambiente.
Qual è il significato globale della Cop30 di Belém e quali risultati concreti ci si aspetta da questo vertice sul clima?
«La Conferenza delle Parti sul clima di Belém in Brasile, apre i lavori lunedì. A 10 anni esatti dall’Accordo siglato a Parigi nel 2015 con la Cop15 che prometteva di mantenere la temperatura media globale entro 1.5°. Ma il vertice di Belem si apre sottotono, anche perché solo una sessantina di Capi di Stato e di Governo hanno confermato la presenza, meno della metà dei 150 convenuti al precedente summit di Dubai due anni fa. E nonostante l’appuntamento dovrebbe occuparsi prioritariamente di adattamento climatico le aspettative sono basse, nonostante la crisi climatica in atto e i pesanti impatti a livello ambientale, economico, sociale e sanitario ci ricordano l’urgenza di azioni concrete».
Come valuta l’attuale impegno dei grandi paesi industriali nella lotta ai cambiamenti climatici, in particolare rispetto agli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra?
«A Belem mancheranno tanti interlocutori istituzionali, l’assenza di Trump era scontate in quanto capo dei negazionisti climatici. Ma non ci sarà nemmeno Xi Jinping, e questo è il segno tangibile dello scarso interesse delle grandi potenze a ridurre le emissioni di gas serra nonostante l’impegno del Brasile e di altri Paesi che avvertono l’urgenza di interventi concreti. Mancherà anche la Meloni, su cui certo non si può fare affidamento sui temi climatici e ambientali, e la stessa Europa, senza sconfessare il tradizionale ruolo di avanguardia e leader della lotta alla crisi climatica mondiale, probabilmente sarà costretta a un profilo basso perché la destra che sostiene Ursula von der Leyen detesta persino sentir parlare di Green Deal figuriamoci dall’assumere impegni concreti contro il climate change. La crisi climatica necessita di politiche globali e di coordinamento tra gli Stati e le potenze economiche mondiali sono più affannate a fare guerre e alzare muri e alimentare conflitti commerciali che occuparsi del futuro del Pianeta».
Quali settori economici globali sono più a rischio a causa dei mutamenti climatici e degli eventi estremi, come siccità, alluvioni e ondate di calore?
«Il cambiamento climatico non risparmia nessun settore produttivo, nessun territorio e nessun Paese è sicuro o immune dalle ricadute negative dei cambiamenti climatici. Inondazioni e tempeste si susseguono a carestie provocate da siccità e incendi estremi, con ricadute su tutti i settori produttivi e sulla salute dei cittadini e del Pianeta. Gli impatti dei cambiamenti climatici incidono in agricoltura per la mancanza di acqua che riduce i raccolti, nella produzione industriale per la carenza di materie prime e anche sul turismo. Il 7% del Pilmondiale dipende dalla disponibilità delle risorse naturali, ma la fragilità e la vulnerabilità degli ecosistemi che garantiscono sussistenza a tanta popolazione non sembra interessare le grandi economie che continuano a inquinare bruciando combustibili fossili che generano Co2 e alimentano la spirale climatica».
Già ora i mutamenti climatici stanno cambiando la nostra vita, il nostro modo di fare impresa, economia e agricoltura. Sono a rischio vaste aree a causa del dissesto idrogeologico. Eppure questo tema non è nell’agenda politica, a livello nazionale come a livello regionale. Si continua a fare finta di nulla. Ma fino a quando sarà possibile?
«In Italia al momento l’unica urgenza sembra essere quella legata al Ponte sullo Stretto di Messina, dimenticando la sicurezza delle persone esposte agli effetti del cambiamento climatico. Lo testimoniano dati del report Città Clima di Legambiente che ha registrato quello che è successo negli ultimi 11 anni: dal 2015 a settembre 2025 nel nostro Paese: ci sono stati oltre 800 eventi meteo estremi, di cui 97 avvenuti tra gennaio e settembre 2025, registrati in 136 comuni sopra i 50mila abitanti. E dove vivono in tutto 18,6 milioni di persone, ossia il 31,5% della popolazione nel Paese. L’impennata degli incendi, che nel 2025 con 92mila ettari di territorio andati in fumo ha raddoppiato il record dello scorso anno, le ondate di siccità, e un’estate 2025 che per l’Italia, secondo Copernicus, è stata la quinta più calda registrata dal 1950 ed è stata segnata da un’anomalia termica di +1,62°C. Tutto questo non è un argomento sensibile per chi governa il Paese. Scorrono le immagini dei danni e le devastazioni, la popolazione si indigna il tempo necessario di un titolo sui giornali e restano, in attesa dell’evento estremo successivo, le polemiche sulle responsabilità di chi doveva intervenire o prevenire e non l’ha fatto».
Quali strumenti può offrire la Cop30 per garantire la sicurezza alimentare globale e supportare l’agricoltura nelle regioni più vulnerabili?
«Tutti i summit e le conferenze mondiali hanno l’ambizione di offrire soluzioni ai problemi globali ma poche riescono a incidere. Soprattutto in questa fase storica dove il ruolo dell’Onu e delle agenzie internazionali come l’Ipcc è messo in discussione dalla politica negazionista dell’America di Trump e dei suoi alleati europei. Diventa complicato incidere se il resto dei Paesi più vulnerabili, ma anche più poveri, non prendono in mano il loro destino e non affidarsi solo all’umore della Casa Bianca che ascolta l’agricoltore dell’Iowa anziché gli scienziati. Occorre mettere in sicurezza la biodiversità e le risorse naturali che garantiscono cibo energia rinnovabile e pescato, puntare su un’agricoltura che produca in maniera pulita cibo sano e disponibile per tutti. Concetti che valgono nel sud del Mondo ma anche nelle regioni del Mediterraneo come la nostra, perché il mare nostrum è la culla della civiltà europea, ma anche un hot spot di biodiversità e una delle aree più vulnerabili ai cambiamenti climatici».
La montagna calabrese con sempre meno pioggia e con la scomparsa di fatto della neve, appare sempre più minacciata. Cosa si può fare?
«Le montagne sono ecosistemi sempre più a rischio per la crisi climatica che incide sulle riduzioni di precipitazioni e consistenza del manto nevoso che, non serve solo a sciare ma, soprattutto, ad alimentare le falde sotterranee che poi alimentano i nostri acquedotti. Diamo per scontata la riduzione delle piogge autunnali e delle precipitazioni nevose in inverno, e non calcoliamo abbastanza gli effetti concreti che questi fenomeni hanno sulla nostra vita che va ben oltre una non sciata. Così come le soluzioni proposte di nuovi bacini di accumulo di acqua in montagna, non tiene conto che quello che manca è la risorsa acqua da invasare, soprattutto in una Regione che dal 2009 non diffonde i dati sulla qualità delle acque sotterranee e superficiali. Perciò non servono nuovi bacini ma occorre utilizzare meglio, risparmiandola, l’acqua disponibile con una agricoltura che deve utilizzare meno acqua e produrre più qualità e meno emissioni in atmosfera».
In che modo la Calabria e le regioni del Sud Italia, già colpite da siccità e incendi, possono prepararsi meglio alle conseguenze dei cambiamenti climatici?
«La piaga degli incendi boschivi, sempre più devastanti e frequenti, interessa in maniera significativa le regioni del Mediterraneo dove, si continua a non investire in prevenzione e gestione attiva del bosco e sulla tutela degli ecosistemi forestali. Ed è sempre più forte l’incidenza su questo fenomeno della siccità e delle ondate di calore che creano le condizioni favorevoli per gli incendiari che, non dimentichiamolo, sono sempre pronti a devastare per speculare sull’ambiente e il territorio. Fino al 15 ottobre sono andati in fumo 94.070 ettari di territorio, quasi il doppio rispetto ai 50.525 ettari andati in fumo nel 2024. Il Sud Italia si conferma l’area più colpita dalle fiamme, in testa la Sicilia con 49.064 ettari bruciati in 606 incendi, seguita da Calabria con 16.521 ettari in 559 eventi, Puglia con 8.009 ettari in 114 eventi, Campania con 6.129 ettari in 185 eventi, Basilicata con 4.594 ettari in 62 eventi.In Calabria gli incendi sono aumentati del 60% rispetto al 2024 e, a livello provinciale, con 6.720 ettari Cosenza è la quarta peggiore d’Italia. I cambiamenti climatici sono un acceleratore di fenomeni che si alimentano, come nel caso degli incendi, da una mancanza di gestione e di prevenzione sul territorio che deve impegnare tutto l’anno e non solo durante i periodi di maggiore criticità. Smettiamo di rincorrere gli incendi e, anziché perdere tempo con il Ponte di Messina, investiamo in opere di tutela del territorio come le foreste che sono la più importante infrastruttura della Calabria su cui vale la pena investire».
Stiamo registrando diverse zone e vaste aree della nostra regione aggredite dalla desertificazione. I segnali erano evidenti già da molti anni fa. Eppure nulla è stato fatto; ora rischia di essere troppo tardi?
«Al solito, la prevenzione nessuno la vede mentre le grandi opere si raccontano bene in campagna elettorale. Non è tardi per invertire il modus operandi, perché alla Calabria non serve una nuova narrazione come dicono tanti politici. Servono, invece, scelte chiare e investimenti mirati in prevenzione e interventi che incrementino la capacità di resilienza dei territori e delle città in termini di mitigazione e adattamento. Comunità consapevoli dei rischi e territori pronti alla transizione ecologica, per passare da una economia basata sulle fonti fossili alla bioeconomia circolare e alle fonti rinnovabili diffuse, è quello che serve per combattere i rischi climatici e anche il fenomeno dell’abbandono di tante aree che, se non curate, alimentano la spirale dei rischi e delle fragilità territoriali».
Infine, quale ruolo possono avere cittadini e imprese locali nel contribuire alle strategie globali in discussione alla Cop30?
«I dati del nostro report Città Clima confermano quanto le aree urbane Italiane siano vulnerabili ai cambiamenti climatici, così come il rapporto globale del Lancet Countdown on Health and Climate Change, e quello dell’Ipcc, sottolineano l’urgenza di agire a livello mondiale e nazionale. Per questo chiediamo al Governo Meloni come prima priorità quella di inserire nella legge di Bilancio in lavorazione le risorse economiche necessarie per attuare il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici e che a livello internazionale l’Italia faccia la sua parte alla COP30 in Brasile per dare concretezza agli impegni presi sia con l’Accordo di Parigi sia nei precedenti summit. In particolare, auspichiamo che il nostro Paese sostenga l’adozione di un Piano d’azione che delinei il percorso dei prossimi anni per accelerare l’azione climatica globale in coerenza con l’obiettivo di 1.5° dell’Accordo di Parigi. Dobbiamo continuare a essere ottimisti, sebbene il quadro internazionale e la politica nazionale non danno molta speranza. Ma confidiamo che a Belem si crei una coalizione di Paesi volenterosi che alimenti nelle imprese e nelle popolazioni la speranza e la concretezza di poter combattere i cambiamenti climatici e sconfiggere tutte le minacce che incombono su di noi e sul Pianeta».