Studio sul cambiamento climatico prevedeva il crollo del 62% del Pil mondiale: l’allarme e poi la ritrattazione
Pubblicato nel 2024 su Nature, è uscito dai confini accademici e ha fatto il giro del mondo impattando anche sui sistemi finanziari. Poi il 3 dicembre scorso il ritiro dell’articolo, una storia che ci insegna che il futuro della politica climatica non è nel catastrofismo
L’articolo “The economic commitment of climate change” pubblicato nel 2024 su Nature, ha fatto irruzione nel dibattito globale sul cambiamento climatico come una rilevazione scientifica schiacciante. In poche settimane è diventato il riferimento obbligato per chiunque parlasse di rischio climatico: ha orientato la comunicazione pubblica, ridefinito gli scenari utilizzati da banche centrali e istituzioni finanziarie e dato nuovo slancio alle politiche climatiche più ambiziose.
Poi, il 3 dicembre scorso, è arrivata la ritrattazione. Un passaggio che ha trasformato quello studio in un caso emblematico, capace di mostrare da vicino come, quando si parla di clima, si intrecciano, e talvolta si scontrano, scienza, media e decisioni politiche.
Il modello econometrico proposto dagli autori dipingeva uno scenario drammatico: il riscaldamento globale già in corso avrebbe potuto erodere fino al 19% del reddito mondiale entro il 2050 e arrivare al crollo del 62% del Pil globale entro la fine del secolo. Tradotto in numeri, significava costi annuali stimati in circa 38.000 miliardi di dollari entro il 2049, tra danni all’agricoltura, alle infrastrutture, alla produttività e alla salute umana.
L’enorme portata mediatica e accademica del lavoro è facilmente quantificabile. Gli indicatori bibliometrici di Nature mostrano oltre 326.000 accessi alla pagina dello studio, 241 citazioni accademiche e un punteggio Altmetric (che misura l’attenzione ricevuta online dallo Studio) di 4.998, tra i più elevati mai registrati. Una rassegna di Carbon Brief lo ha classificato come il secondo articolo sul clima più visibile mediaticamente nel 2024, secondo solo a uno studio sulla perdita di ghiaccio in Antartide. Retraction Watch, ripercorrendo la vicenda dopo la ritrattazione, ha sottolineato come l’articolo fosse stato consultato più di 300.000 volte, entrando stabilmente nel dibattito sia specialistico che pubblico.
La forza dello studio non risiedeva soltanto nell’entità delle stime, ma anche nel contesto politico in cui veniva pubblicato: un’Unione Europea impegnata nel Green Deal, banche centrali sempre più attente a integrare il rischio climatico nei propri mandati, governi alla ricerca di numeri semplici e immediati per giustificare politiche ambiziose.
Ed è qui che emerge l’aspetto forse più sorprendente e meno noto al grande pubblico. Lo studio di Nature non è rimasto confinato all’ambito accademico, ma è stato rapidamente incorporato nei modelli ufficiali del sistema finanziario internazionale. Il Network for Greening the Financial System (NGFS), che riunisce oltre 150 banche centrali e autorità di vigilanza, tra cui BCE, Bank of England, Federal Reserve, Banca d’Italia e People’s Bank of China, ha adottato una funzione di danno climatico direttamente ispirata allo studio di Kotz et al. su Nature.
Le conseguenze sono state immediate e rilevanti. Gli impatti economici stimati negli scenari NGFS sono risultati fino a quattro volte più elevati rispetto alle versioni del 2022.
Nel Financial Stability Review 2024 e nei successivi stress test, la Banca Centrale Europea ha dichiarato esplicitamente di aver adottato gli scenari NGFS aggiornati, osservando che «le nuove proiezioni indicano impatti macroeconomici più significativi del previsto». Analogamente, nel rapporto sul Climate Biennial Exploratory Scenario, la Bank of England ha rilevato che «gli impatti nei nuovi scenari risultano più elevati a causa di nuove evidenze empiriche». La Federal Reserve, nei documenti del Climate Stress Test Pilot 2024, ha affermato che «gli scenari utilizzati riflettono le funzioni di danno NGFS più aggiornate», mentre la Banca d’Italia, nel Rapporto sulla Stabilità Finanziaria 2024, ha ribadito che «gli scenari climatici NGFS costituiscono la base per le valutazioni della Banca».
In pratica, lo studio di Nature firmato da Kotz, Levermann e Wenz del Potsdam Institute for Climate Impact Research. non è stato soltanto un episodio scientifico: per oltre un anno è diventato un riferimento globale nella costruzione degli scenari economici che guidano politiche climatiche ed energetiche, supervisione bancaria, gestione del rischio e comunicazione pubblica. Ha contribuito a rafforzare una narrativa sui danni economici potenzialmente enormi del cambiamento climatico — fino a decine di punti di PIL mondiale — ed è stato utilizzato, direttamente o indirettamente, per giustificare l’urgenza di politiche ambiziose e stress test finanziari sempre più severi.
La ritrattazione del dicembre 2025 impone quindi una riflessione profonda sulle modalità con cui la ricerca scientifica sul clima viene tradotta in numeri, narrazioni e decisioni politiche, e sui rischi legati a un uso eccessivamente catastrofista di risultati ancora fragili o non consolidati.
Alla luce del Rapporto su Obiettivi e Realtà delle Politiche Climatiche e di quanto emerso durante la XVII Conferenza Nazionale sull’Efficienza Energetica degli Amici della Terra, questa vicenda non appare come un semplice errore tecnico, ma come il sintomo di un problema strutturale che ha contribuito al fallimento del Green Deal europeo. Un problema riconducibile a tre tendenze ricorrenti: la dipendenza da scenari estremi non sempre fondati su basi solide; l’adozione di un approccio catastrofistico che spesso sostituisce l’analisi costi-benefici e il realismo; la definizione di obiettivi irrealistici — come la riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040 — scollegati dai trend globali dell’energia e dell’industria.
I dati riportati nel “Rapporto su Obiettivi e Realtà delle Politiche Climatiche” mostrano infatti che, a livello globale, tra il 1990 e il 2024 le emissioni di gas serra e i consumi energetici sono aumentati, nonostante decenni di impegni internazionali; che le fonti fossili coprono ancora oltre l’80% del fabbisogno energetico mondiale; e che l’Unione Europea ha sì ridotto consumi ed emissioni, ma al prezzo di una perdita di competitività industriale e di delocalizzazioni verso Paesi con standard ambientali più bassi e maggiore dipendenza dalle fonti fossili.
Ne emerge un bilancio chiaro: il Green Deal risulta inefficace sul piano climatico e costoso su quello economico e sociale. Da qui la necessità di un vero “reset” delle politiche climatiche europee, fondato su tre pilastri: neutralità tecnologica, senza escludere a priori alcuna opzione — incluso il nucleare; priorità all’efficienza energetica rispetto all’espansione indiscriminata di rinnovabili intermittenti; obiettivi climatici realistici, costruiti su analisi comparate dei dati globali e non limitate al solo contesto europeo.
La vicenda dello studio Nature e della sua ritrattazione fornisce tre insegnamenti fondamentali: 1) Il cambiamento climatico è serio e ampiamente documentato dalla Storia dell’Uomo e della Terra, ma richiede quantificazioni robuste, non scenari estremi mal calibrati. 2) La comunicazione catastrofista è dannosa, perché polarizza, distorce, crea fragilità istituzionale. 3) Le politiche climatiche devono poggiare su pluralità di evidenze, neutralità tecnologica, trasparenza dei dati e valutazione realistica dei rischi.
Il futuro della politica climatica non è nel catastrofismo, ma in una scienza aperta, verificabile, prudente e rigorosa, capace di sostenere strategie efficaci senza scivolare nell’ideologia.
*Geologo del Consiglio nazionale Amici della Terra