«A Cetraro tutti sanno chi mi ha ucciso»: ma dopo 45 anni il delitto Losardo è ancora senza colpevoli
Il secondo omicidio politico-mafioso nella storia della Calabria interroga ancora la memoria e il movimento antimafia. Lo storico Ciconte: «All’epoca magistratura inadeguata e subalterna». Il ricordo delle parole di Berlinguer e la prospettiva: «Costruire un movimento di massa contro il sistema di potere»
Prima Peppe Valarioti, poi Giannino Losardo: due delitti politici della ’ndrangheta ad appena 10 giorni di distanza. Due esponenti del Pci uccisi dal piombo dei killer: omicidi senza colpevoli. Sono passati 45 anni dal giorno in cui un moto affiancò l’auto di Losardo per compiere la propria missione di morte. E risuonano ancora amare le sue parole all’arrivo in ospedale, ferito a morte ma ancora capace di dire: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato».
Qualche giorno fa Cetraro l’ha ricordato in una manifestazione al porto, un tempo enclave inespugnabile del clan Muto. Oggi nella cittadina del Tirreno cosentino il clima è teso: si è tornati a uccidere, nuovi gruppi criminali sgomitano per prendere il controllo.
L’impegno di oggi e la memoria di ieri si fondono. Memoria che, ieri, lo storico della ’ndrangheta Enzo Ciconte ha alimentato con un post sui social in cui ricorda anche i passaggi più spinosi di quella stagione.
Cetraro ribadisce il suo No alla ‘ndrangheta, cittadini e Stato uniti in nome della legalità e nel ricordo di Giovanni LosardoChi era Giannino Losardo
Figlio di Giuseppe Losardo, un artigiano antifascista che aveva abbracciato la causa comunista dopo la scissione del 1921, e di Angelina Seta, casalinga. Da piccolo aiutava il padre nella bottega di calzolaio: era curioso, amava leggere e riuscì a preparare gli esami per la licenza ginnasiale negli anni della Seconda Guerra mondiale. Finita la guerra si diplomò a Vibo, al liceo classico Morelli: poi l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli, che lasciò a pochi esami dalla laurea. A 19 anni era già iscritto al Partito comunista. Il 22 giugno 1980 era padre di due figli, dirigente comunista, assessore del comune di Cetraro e poi sindaco seppure per breve tempo, segretario-capo della Procura di Paola.
La frase all’amico: «Mi raccomando di’ tutto»
La sera in cui fu ucciso rientrava a casa dopo aver partecipato alla seduta del consiglio comunale. Seguiva sempre lo stesso rituale: tutte le sere andava a trovare sua madre. Chi lo uccise sapeva di quell’abitudine. Una moto, con due persone a bordo a volto coperto per non farsi riconoscere, lo sorpassò e il passeggero seduto dietro cominciò a sparare.
Ciconte evidenzia la frase pronunciata all’arrivo in Pronto soccorso e aggiunge un dettaglio: «All’avvocato Granata, vicepretore onorario di Paola e amico intimo di Losardo, col quale parlò per vari minuti prima di essere portato in sala operatoria aggiunse: “Mi raccomando di’ tutto”. Ma quella raccomandazione andò a vuoto».
«Chi ha ucciso Giannino Losardo?»: Cetraro applaude il docufilm sul suo eroe antimafia e chiude l’era del clan Muto«Magistratura inadeguata e subalterna»
Cosa ci fosse dietro quel “tutto” si può provare a ipotizzare. Ciconte ricorda che «Losardo era stato uno dei primi a segnalare i pericoli dell’estendersi del fenomeno mafioso nel Tirreno cosentino. L’omicidio era una sfida della mafia. Il messaggio era chiaro per tutti. Il ministro di Grazia e giustizia, Tommaso Morlino, aveva presieduto una riunione che s’era svolta al palazzo di giustizia di Paola. C’era un problema della magistratura che era inadeguata e subalterna, incapace di affrontare una situazione che si rivelava sempre più violenta e complicata». L’avvocato comunista Francesco Martorelli ebbe parole durissime per “spiegare” la crescita dei clan del Tirreno: «Questa criminalità è cresciuta perché questa magistratura non ha perseguito i filoni veri del crimine organizzato». Parlava di Franco Muto, il re del pesce, che s’era affermato.
Losardo, Valarioti e gli altri: vittime senza giustizia
«Muto – continua il post di Ciconte – aumentò la sua popolarità diventando Presidente dell’unione sportiva di Cetraro. Costruì la pescheria su suolo del demanio marittimo nella zona portuale e solo Losardo, quand’era sindaco, cercò di impedire quello scempio».
Il processo fu una pagina dolorosa: «Quando si svolse – scrive lo storico – ci furono episodi di violenza che consigliarono il procuratore generale di Catanzaro a chiedere che venisse spostato ad altra sede. Si svolse a Bari e si concluse senza colpevoli perché non furono condannati né gli esecutori, né il o i mandanti dell’assassinio. Losardo, Valarioti e tanti altri fanno parte di un’infinita schiera di vittime che non hanno avuto giustizia».
La Calabria che non piegava la schiena
Ciconte non dimentica quanto queste storie segnarono il Pci: «Arrivò Berlinguer a Cetraro a commemorare Losardo, consapevole che il Pci calabrese era sotto attacco come mai era avvenuto prima anche se negli anni precedenti erano già stati uccisi Rocco Gatto e Francesco Vinci che si erano opposti alla prepotenza mafiosa. Un fatto era chiaro: il Pci era il partito che si opponeva con determinazione e con il coraggio dei suoi dirigenti alla tracotanza mafiosa».
È una storia, questa, che «dovrebbe essere patrimonio di tutti perché rappresenta la parte migliore di una Calabria che non ha piegato la schiena. Per questo dispiace che a 45 anni dalla sua morte sia stata annullata, senza una valida spiegazione (le ragioni logistiche e organizzative addotte, volendo, si potevano risolvere rinviando la presentazione) la proiezione di in docufilm di Giulia Zanfino dal titolo emblematico: Chi ha ucciso Giovanni Losardo? Possibile che a distanza di così tanti anni questo semplice interrogativo turbi qualcuno e lo metta in agitazione?».
L’appello al movimento antimafia calabrese
Il docente universitario cita le parole di Berlinguer a Cetraro: «Negli ultimi anni in Calabria si è fatto di tutto per indebolire e scoraggiare il movimento democratico forte e combattivo che con caratteristiche di vera e propria lotta di massa, si batteva contro la mafia, per mettere in crisi il sistema di potere clientelare, per aprire concrete prospettive di lavoro e di sviluppo».
«Sono passati tanti anni – conclude – ma quell’annotazione è ancora valida. Il movimento antimafia calabrese ha davanti a sé il compito di costruire un movimento di massa contro il sistema di potere».