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26/07/2025 ore 06.30
Attualità

Altro che addio: la rinascita possibile di tre borghi calabresi. L’esempio di Bova, Pentedattilo e Sant’Agata del Bianco

Contro la resa annunciata dal Governo, ci sono sindaci e cittadini che costruiscono il futuro pezzo dopo pezzo, senza attendere nessuno. Tre piccoli comuni del Reggino provano ad affrontare l’abbandono con politiche di restanza attiva e rigenerazione

di Silvio Cacciatore

In Calabria, c’è chi non ha atteso un segnale dall’alto per decidere se valesse ancora la pena restare. Mentre nei documenti ufficiali si pianifica una lenta uscita di scena per interi territori, lontano dai riflettori alcuni borghi hanno cominciato a costruire futuro con le proprie mani. Niente piani calati dall’alto, nessun colpo di bacchetta. Solo la forza di un’idea condivisa, di un’appartenenza ostinata, di un’urgenza collettiva: non scomparire. Non spegnersi in silenzio.

A Sant’Agata del Bianco, a Pentedattilo, a Bova, la parola “spopolamento” non è stata cancellata. È stata guardata in faccia, compresa, e affrontata con strumenti apparentemente fragili: l’arte, la collaborazione, la memoria, il paesaggio, l’ospitalità. E invece, proprio questi strumenti hanno mostrato di poter aprire spazi nuovi, di invertire tendenze che sembravano irreversibili. Non ovunque, non in tutto, ma abbastanza da dimostrare che una strada diversa esiste.

Se la fine era data per certa, questi tre luoghi dimostrano che non tutti sono disposti a morire in silenzio. E che, quando la politica rinuncia a vedere, la realtà a volte si mette a parlare da sola.

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«Nessuno verrà a salvarci, ma nessuno si è mai salvato da solo». Domenico Stranieri, sindaco di Sant’Agata del Bianco, ha deciso di non aspettare. «L’attesa ci ha condannati. Per anni siamo rimasti fermi, paralizzati dall’illusione che prima o poi qualcuno sarebbe intervenuto. E anche quando sono arrivati i fondi per il Sud, spesso sono stati spesi male. Senza visione, senza coscienza». Sant’Agata ha scelto di partire da sé stessa, e da un’idea semplice: la bellezza come forma di resistenza. In un borgo segnato dal cemento, è nato un progetto di rigenerazione urbana ispirato all’opera e al pensiero di Saverio Strati, che in quei luoghi era nato e che aveva scritto la sua Calabria più vera. «Strati credeva che l’arte potesse spiegare meglio della politica le lacerazioni dell’uomo. E noi, partendo da questa intuizione, abbiamo trasformato il paese in una narrazione viva: porte dipinte, murales, installazioni, artisti che raccontano e che curano». Il cemento è stato coperto, la bruttezza fermata, le pareti riscritte.

Ma non era un semplice restyling, è l’estetica “della rivolta”: « Noi crediamo che non possa esserci rivoluzione sociale o politica se non passa anche per una rivoluzione estetica». Il risultato è sotto gli occhi di tutti. A Sant’Agata, dove per anni si chiudeva tutto, oggi si aprono bed and breakfast, ristoranti, pizzerie, quindi posti di lavoro. Segni di una vita che ritorna. Eppure Stranieri non ha illusioni: «Non basta un murales per salvare un paese. Serve una nuova politica nazionale, serve coraggio, serve coerenza». Intanto, nel suo piccolo, lotta. E invita i colleghi a fare altrettanto: «Coinvolgete i cittadini. Coltivate la partecipazione. Perché il miglior sindaco del mondo, se resta solo, non può cambiare nulla».

A Pentedattilo, il principio è lo stesso: non c’è salvezza dall’alto, ma ci si può salvare insieme. E il “simbolo della rinascita” non è un’idea retorica, ma un progetto concreto, che si può toccare con mano. «Chi governa deve governare per tutti, non per una parte sola – afferma Giuseppe Toscano, presidente dell’associazione Pro Pentedattilo -. E noi, da anni, lavoriamo con il Comune, con la Regione, con la Città Metropolitana. Perché il colore politico cambia, ma i paesi restano. E se si vuole farli vivere, bisogna farlo insieme». Oggi, nel borgo incastonato tra le dita di pietra, le botteghe artigiane restano aperte tutto l’anno, l’ospitalità è diffusa, più di venti case private sono state recuperate e restituite ai legittimi proprietari. Le stesse oggi ospitano viaggiatori, eventi, laboratori, momenti di cura del paesaggio.

Anche la natura è diventata parte del progetto: «Creiamo linee tagliafuoco, difendiamo le piante autoctone, proteggiamo un ecosistema fragile. E tutto questo accade mentre ci dicono che questi paesi sono destinati a morire». Pentedattilo, invece, respira. Grazie anche ai campi di lavoro estivi, decine di ragazzi e ragazze da tutta Europa arrivano per restaurare, pulire, conoscere, raccontare. «Abbiamo invertito il paradigma. Ci dicevano che era tutto perduto, e invece siamo ancora qui. E ogni giorno qualcosa rinasce». Per Toscano, l’area grecanica offre due esempi evidenti di ciò che si può fare quando si scommette davvero sulla cultura e sulla cooperazione: Pentedattilo e Bova. «Basta con la narrazione dei borghi da cartolina. Qui si lavora, si accolgono persone, si generano economie. Qui, chi cammina può fermarsi. Chi si perde può ritrovarsi. E chi crede che sia finita, può ancora ricominciare».

Ed anche Bova, appunto, il cuore identitario dell’area grecanica, è riuscita a non spegnersi. Ma non per miracolo, né per decreto. Lo chiarisce bene il vicesindaco Gianfranco Marino: «Non basta essere amministratori illuminati. Serve anche incrociare il treno giusto, nel momento giusto. E poi bisogna essere capaci di salirci sopra, senza paura». Bova ha vissuto una stagione felice, frutto di visione, contingenze favorevoli, continuità. Ma sa bene che non tutti i territori possono dirsi altrettanto fortunati. «Quando il Governo afferma che lo spopolamento è irreversibile, sta semplicemente scattando una fotografia realistica.Ma non può fermarsi lì. Non può dire che ci accompagnerà con dignità verso la fine. Le istituzioni devono pianificare il futuro, non dichiarare la morte assistita dei paesi».

Marino rifiuta i toni della retorica, anche quando riguarda la difesa dei piccoli centri: «La parola “borgo” è diventata un brand. Plastificata. Svuotata. Non serve l’estetica turistica se non si accompagna con il lavoro, con i servizi, con il radicamento». Bova, in questo senso, è una buona pratica, ma non un’isola felice. Lo spopolamento riguarda ormai anche la costa, le città, non è più solo un tema di aree interne. Per questo servirebbe una nuova visione strategica, ma soprattutto uno scatto morale, come lo chiama Marino: «Mettere in campo un cambiamento di cui sai che non vedrai i frutti. Piantare qualcosa per chi verrà dopo. Ecco cosa significa davvero governare in questi luoghi». A Bova, questo passaggio generazionale è avvenuto. Ma non sempre accade. «Noi oggi raccogliamo il testimone di chi ha seminato senza vedere. E ci auguriamo, un giorno, di lasciare lo stesso dono a chi verrà dopo di noi».

Non si tratta di favole consolatorie. Né di eccezioni miracolose da contrapporre alla desertificazione in corso. Le storie di Sant’Agata del Bianco, Pentedattilo e Bova raccontano qualcosa di più profondo: che la fine non è scritta ovunque. E che, dove si è saputo seminare visione, partecipazione e bellezza, qualcosa continua a crescere.

Non basta il racconto dei borghi che resistono. Servirebbe un Paese che li ascolta, li sostiene, li mette al centro di una politica vera. Invece, la strategia attuale è ancora figlia della rassegnazione. C’è chi sceglie di “accompagnare con dignità” lo svuotamento. E c’è chi, senza mezzi e senza clamore, continua a costruire futuro con la forza della comunità.

La differenza, alla fine, è tutta qui. Tra chi firma la resa e chi, ogni giorno, continua a scrivere a matita nuovi inizi. Anche se sa che qualcun altro – un giorno – dovrà ripassarli a penna.