Arthur Finkelstein, lo stratega dietro Orban e Netanyahu: chi era lo spin doctor che ha insegnato a vincere con l’odio
Dagli USA all’Ungheria, passando per Israele: così un consulente repubblicano ha costruito le strategie comunicative di due dei populisti più controversi del XXI secolo, anticipando la propaganda algoritmica e la crisi delle democrazie liberali
Negli ultimi decenni, gli spin doctor sono diventati figure centrali nella politica moderna. Esperti della comunicazione, operano spesso dietro le quinte ma con un’influenza enorme: plasmano l’immagine dei leader, orientano l’opinione pubblica e trasformano le crisi in opportunità. Nell’era dei media digitali, il loro ruolo è cresciuto ancora di più, contribuendo in modo decisivo all’ascesa del populismo. La semplificazione estrema dei messaggi, l’uso dell’emotività e la creazione di nemici comuni sono diventati strumenti chiave della propaganda contemporanea.
In questo contesto, una figura spesso rimasta nell’ombra ma decisiva nella costruzione dei messaggi propagandistici di due tra i populisti più influenti (e controversi) del XXI secolo, Viktor Orban e Benjamin Netanyahu, è stata quella di un repubblicano americano. Il suo nome è Arthur Finkelstein.
Un enfant prodige della comunicazione politica
Arthur Finkelstein nasce da una famiglia ebrea della lower-middle class americana e, nemmeno ventenne, inizia a farsi notare da Barry Goldwater – candidato ultraconservatore alla Casa Bianca - e poi da Richard Nixon, per il quale sviluppa sofisticate analisi demografiche in vista delle presidenziali del 1972. Più tardi, nel 1976, sarà tra gli artefici della campagna che rilancia Ronald Reagan sulla scena nazionale, aprendo la strada alla sua elezione a presidente cinque anni dopo.
Già da giovane, Finkelstein sviluppa un metodo rivoluzionario per l’epoca: il microtargeting. In un tempo in cui i social non esistono, utilizza posta tradizionale e marketing telefonico per suddividere con precisione l’elettorato e inviare messaggi calibrati, modulati in base al destinatario. Ma è sul piano della comunicazione politica che impone la sua cifra stilistica: più che promuovere il candidato, Finkelstein eccelle nell’attaccare l’avversario, trasformandolo in una minaccia. Una strategia spietata, destinata a diventare un pilastro della retorica populista contemporanea.
Dall’America all’Europa dell’Est, passando per il Medio Oriente
Dopo aver formato un'intera generazione di spin doctor repubblicani – che avranno un ruolo decisivo nelle vittorie elettorali di George W. Bush e Donald Trump – nel 1996 Finkelstein sbarca in Israele, dove cura la campagna elettorale di Benjamin Netanyahu, allora sfavorito contro Shimon Peres. Dopo aver modificato l’immagine pubblica dell’attuale premier israeliano, facendogli tingere i capelli di grigio per farlo apparire più autorevole, Finkelstein imposta una comunicazione fortemente divisiva. Lo slogan “Netanyahu è buono per gli ebrei” crea una spaccatura netta con la popolazione araba, ma compatta l’elettorato conservatore. Questa logica del “noi contro loro” diventerà una costante nella politica israeliana e influenzerà anche gli eventi futuri, inclusi quelli tragici che porteranno al conflitto in corso.
Netanyahu non è l’unico leader forgiato da Arthur Finkelstein. Nel 2009, il celebre stratega politico approda anche in Ungheria, dove contribuisce all’ascesa di Viktor Orban, dando inizio a un lungo mandato di governo. Come Netanyahu – e come lo stesso Finkelstein – anche Orbán abbraccia una visione politica ispirata al pensiero di Carl Schmitt, secondo cui il fondamento della politica consiste nell’identificazione del nemico.
Se per Netanyahu il nemico era rappresentato dalla Palestina e dal mondo arabo, in Ungheria l’avversario da combattere diventa l’Unione Europea, accusata di essere responsabile della grave crisi economica che ha colpito il paese. Con il supporto di Finkelstein, Orban costruisce una campagna martellante contro la tecnocrazia di Bruxelles e contro il mondo liberal, riuscendo così a battere l’europeista Gordon Bajnai alle elezioni del 2010.
Dopo quattro anni di riforme costituzionali che imprimono una svolta illiberale al paese, nel 2015 Orban si trova ad affrontare la prima vera crisi del suo governo: emergono scandali di corruzione che coinvolgono figure a lui vicine, mettendo a rischio la credibilità dell’esecutivo. Ancora una volta, è Finkelstein a suggerire la strategia per spostare l’attenzione pubblica: il nuovo nemico da additare è l’immigrazione, in particolare quella legata ai flussi di rifugiati provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente.
Sebbene la presenza di stranieri in Ungheria sia esigua e il numero di nuovi arrivi estremamente limitato, Orban e Finkelstein riescono a trasformare questa realtà marginale in una potente narrazione politica. L'immigrazione diventa così il fulcro di una nuova macchina del consenso, alimentata dalla paura e dal bisogno di protezione identitaria, e strumentalizzata per consolidare ulteriormente il potere del leader di Fidesz.
La propaganda nell’era degli algoritmi, il fallimento delle democrazie liberali
Oggi più che mai, la comunicazione politica – o meglio, la propaganda – non si limita a selezionare e semplificare i messaggi: costruisce vere e proprie realtà alternative. Grazie alla potenza degli algoritmi social, le campagne vengono calibrate scientificamente per colpire paure, desideri e identità, alimentando divisioni e amplificando narrazioni spesso totalmente scollegate dai fatti. Bugie efficaci, confezionate come verità, diventano virali e si sedimentano come convinzioni profonde. In questo ecosistema, il confine tra informazione e manipolazione si dissolve.
Il modello introdotto da strateghi come Arthur Finkelstein – nel frattempo deceduto nel 2017 - ha anticipato questa deriva: scegliere un nemico, creare una minaccia, semplificare il discorso fino a renderlo un grido identitario, e infine bombardare l’elettorato con contenuti personalizzati, ininterrotti e irrefutabili. Una macchina che funziona perché parla alla pancia, non alla testa.
Le democrazie liberali, nel frattempo, mostrano segni evidenti di crisi. Inseguendo un consenso di superficie, spesso piegato alle logiche del politicamente corretto o dell’apparenza etica, hanno perso il contatto con le esigenze reali delle persone.
A forza di rinviare le questioni profonde – economiche, sociali e culturali – hanno lasciato spazio a chi promette soluzioni semplici e immediate. Ma la risposta non può essere la censura del dissenso o la rigidità ideologica: serve invece un ritorno alle radici autentiche del liberalismo, fondato sulla centralità dell’individuo, delle libertà personali e della responsabilità civile.