Bombe e silenzi, il prezzo della verità in Italia: da Ranucci a Costanzo, giornalisti sotto attacco
Da una parte chi vorrebbe spegnere la loro voce, dall’altra un Paese che li lascia soli. L’ordigno sotto l’auto del cronista di Report non è solo un atto intimidatorio, è una diagnosi
Quando salta in aria l’auto di un giornalista, non è solo un’auto che esplode. È un pezzo di democrazia che si polverizza. È la libertà d’informazione che brucia nel cortile di casa, insieme alle carrozzerie contorte e ai vetri infranti. È l’Italia che si guarda allo specchio e finge di non vedere.
Sigfrido Ranucci, volto e anima di Report, non è un personaggio comodo. Fa domande. Soprattutto, le fa a chi non gradisce sentirsele fare. È per questo che la sua macchina, e quella di sua figlia, sono saltate in aria. Non per un corto circuito, non per caso. Ma per un ordigno “in grado di uccidere”.
Chi piazza una bomba davanti alla casa di un giornalista non vuole solo spaventarlo: vuole spegnerlo. Vuole che taccia. Vuole che Report smetta di raccontare ciò che nessuno racconta più: le relazioni pericolose tra affari, politica, criminalità e potere.
Eppure, l’indignazione è già a orologeria. Partono i comunicati di rito: “Solidarietà a Ranucci”, “Colpo alla libertà di stampa”, “Serve fare chiarezza”. Tutti indignati, ma senza disturbare troppo il manovratore. Perché si sa, l’Italia è il Paese dove i giornalisti liberi vengono difesi solo a parole. Fino al prossimo boato.
L’ombra della ’ndrangheta dietro l’attentato a Sigfrido Ranucci: la pista calabrese è tra le più seguite dagli inquirentiDa anni Ranucci vive sotto minacce, delegittimazioni, attacchi orchestrati da chi lo vorrebbe screditare anziché confutare. Gli hanno fatto trovare proiettili fuori casa, gli hanno scavato la reputazione a colpi di insinuazioni. E adesso, quando il messaggio è diventato esplosivo, scopriamo che lo Stato — quello che dovrebbe proteggerlo — si è voltato dall’altra parte.
Questa storia, purtroppo, non è nuova. Ricorda da vicino quella di Maurizio Costanzo. Anche lui doveva morire. Indimenticabile la diretta televisiva Rai-Fininvest contro la mafia, organizzata da Costanzo e Michele Santoro un mese dopo l’omicidio di Libero Grassi. Impegno non gradito da Cosa nostra, che il 14 maggio 1993 tentò di ucciderlo con cento chili di tritolo.
Totò Riina inviò a Roma i suoi picciotti per studiare l’obiettivo. Le immagini immortalano Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro nel teatro Parioli a osservare Costanzo. L’autobomba esplose, ma fallì: Costanzo e la moglie Maria De Filippi si salvarono. Soldino, l’uomo che portava i segreti della mafia, morì senza infamare, lasciando nel silenzio la memoria dei piani criminali.
Ranucci, quando una bomba colpisce un giornalista a esplodere è la democraziaRanucci è vivo per miracolo, Costanzo lo fu allora. Ma il giornalismo italiano è sempre più sotto assedio, soffocato non solo dalle bombe, ma dai compromessi, dall’autocensura, dai conduttori che si inginocchiano davanti al potere invece di guardarlo negli occhi.
Le bombe non esplodono mai nel vuoto. Arrivano sempre dopo settimane, mesi, anni di veleni, di linciaggi mediatici, di dossier, di “gogne” travestite da opinioni. Arrivano quando la delegittimazione ha già scavato abbastanza perché qualcuno si senta legittimato a passare ai fatti.
La bomba a Pomezia non è solo un atto intimidatorio. È una diagnosi. Ci dice che la malattia è arrivata al cuore: l’Italia non sa più distinguere tra chi fa informazione e chi fa propaganda. Tra chi indaga e chi si inginocchia.
Sigfrido Ranucci non è un martire. Maurizio Costanzo non lo era. Sono giornalisti. E se oggi uno deve avere paura per aver fatto il proprio lavoro, allora a tremare dovremmo essere tutti noi. Perché quando il potere riesce a far paura a chi racconta la verità, vuol dire che la democrazia è già saltata in aria — solo che non ce ne siamo ancora accorti.