Calabria: la regione che potrebbe guidare il Mediterraneo, ma che non guida nemmeno se stessa
Tre decenni di scelte sbagliate hanno frenato una regione che avrebbe tutto per essere un hub economico e culturale. I dati del Censis lo confermano: il vero deficit è politico, non geografico. Una verità che nessuno ha mai voluto dire
Negli ultimi trent’anni la Calabria è stata raccontata come un enigma irrisolto. Una regione piena di promesse e poi regolarmente tradita da numeri impietosi: povertà record, servizi essenziali allo stremo, infrastrutture in ritardo di decenni. Ma chi osserva la Calabria solo attraverso le classifiche annuali (quelle che la inchiodano puntualmente agli ultimi posti) rischia di confondere l’effetto con la causa.
L’arretratezza della Calabria non è un mistero antropologico.
È il risultato di scelte politiche sbagliate, ripetute, costanti, che hanno attraversato governi nazionali, amministrazioni regionali, classi dirigenti locali. Una continuità di errori così lunga da diventare sistemica.
Le cifre che spiegano un declino programmato
Prendiamo i dati più recenti. Secondo Eurostat, il 37,2% dei calabresi è a rischio povertà o esclusione sociale; il PIL pro capite resta inchiodato al 55% della media europea; la disoccupazione è ancora doppia rispetto al dato italiano; la sanità è in stato di commissariamento permanente, un unicum nazionale; l’emigrazione giovanile continua senza inversioni di tendenza.
Il punto non è la gravità dei numeri. Il punto è che questi numeri sono rimasti identici per trent’anni.
In un Paese che nel frattempo cambiava, cresceva, si integrava nell’Europa e si adattava alla globalizzazione, la Calabria è rimasta ferma. Anzi: è stata fermata.
Il tradimento della politica: trenta anni di promesse evaporate
Non c’è rassegnazione geografica che tenga. La Calabria non è povera per destino: è povera per politica. Per decenni è stata trattata come una periferia irredimibile, a cui concedere fondi a singhiozzo, interventi d’emergenza, commissariamenti senza mai risolvere i nodi strutturali.
A livello nazionale i grandi progetti infrastrutturali sono rimasti annunci.
A livello regionale, invece, si sono alternati: governi fragili, dirigenti senza competenze, burocrazie incapaci, amministrazioni spesso ossessionate dal consenso immediato e clientele trasformate in metodo.
In questi trent’anni è mancato tutto ciò che fa crescere un territorio: visione, continuità, coraggio.
Ma soprattutto è mancata una classe dirigente all’altezza.
Un potenziale enorme. Un’occasione storica sprecata.
In qualsiasi altro Paese mediterraneo, la Calabria sarebbe considerata una regione strategica: tre mari, un porto naturale verso l’Africa, collegamenti potenziali verso i Balcani, una biodiversità unica, un patrimonio paesaggistico ed enogastronomico tra i più ricchi d’Europa.
Pochi territori hanno le carte della Calabria.
E proprio per questo la sua situazione è doppiamente grave: non è povera nonostante ciò che ha, ma a causa di ciò che non ha mai realizzato.
In un’epoca in cui l’Europa discute di energia, mobilità, reti logistiche, sicurezza mediterranea, la Calabria potrebbe essere protagonista.
Invece è rimasta spettatrice.
La diaspora dei giovani: la ferita aperta
La fuga dei ragazzi non è un fenomeno economico. È un giudizio politico.
Quando un giovane calabrese parte, non se ne va solo per uno stipendio più alto: se ne va perché non vede un progetto, perché percepisce che il talento non è valorizzato, che il futuro non è programmato, che il merito non viene premiato.
Ogni giovane che parte è un atto d’accusa. Ed è una perdita irreversibile.
Ma qualcosa si muove. E nessuno lo racconta.
Ci sono segnali che non emergono nella cronaca quotidiana: investimenti in istruzione sopra la media del Sud, università che resistono e innovano, startup nate dal basso, territori che investono su cultura e sostenibilità, amministratori locali che provano a cambiare metodo.
Non sono ancora un modello.
Ma dimostrano un fatto: la Calabria non è immobile come sembra. È la rappresentazione politica della Calabria ad essere immobile. Una conclusione scomoda. Necessaria. Inevitabile.
Dire che la Calabria è senza speranza è falso. Dire che la Calabria è vittima del destino è falso. Dire che i calabresi “non vogliono cambiare” è falso.
La verità è un’altra, e fa molto più male: la Calabria è stata tradita da chi l’ha governata e da chi avrebbe dovuto guidarla.
Trent’anni non sono un ciclo politico: sono una generazione.
E una generazione di classe dirigente — con poche, luminose eccezioni — ha fallito.
Se la Calabria oggi vuole rialzarsi, deve partire da qui: da un’assunzione collettiva di responsabilità. Perché il problema non è la Calabria.
Il problema sono trent’anni di chi aveva il potere di cambiarla e non lo ha fatto.
Il resto è geografia.
Il futuro, invece, dipenderà da chi avrà finalmente il coraggio di cambiare rotta.