Dalle polente venete alla ‘nduja calabrese, la cucina italiana nell’Unesco come patrimonio vivente, non stereotipo turistico
Il riconoscimento non celebra solo i piatti simbolo, ma un patrimonio antropologico fatto di pratiche, saperi e rituali che uniscono territori e generazioni. Un mosaico culturale che resiste alla globalizzazione e valorizza la pluralità delle tradizioni
In un mondo sempre più globalizzato, dove i confini culturali si dissolvono nei flussi di merci e idee, l'iscrizione della "cucina italiana" come Patrimonio Immateriale dell'Unesco rappresenta non un modo di celebrare piatti iconici – la pizza napoletana o il pesto genovese – ma di riconoscere il cibo come un artefatto vivente della cultura umana. Dal punto di vista antropologico, il cibo non è solo nutrimento, ma è un linguaggio, un rituale, un vettore di identità che incontra generazioni, territori e comunità. È, come direbbe Claude Lévi-Strauss, il "crudo e il cotto" che separa l'uomo dalla natura, trasformando ingredienti in simboli di appartenenza.
Gli spot dei “governanti” che dai social ai primi piani dei giornali vantano il primato, non sanno spiegare certi importanti dettagli. Immaginiamo la cucina italiana non come un monolite nazionale, ma come un ecosistema antropologico frammentato e interconnesso. Il dossier Unesco lo descrive esplicitamente come un "mosaico di tradizioni regionali e locali", un patchwork che va dalle polente venete, intrise di storia contadina e influenze alpine, alle arancine siciliane, che portano in sé echi di dominazioni arabe e normanne.
Qui, il cibo diventa un palinsesto culturale: ogni regione – dal Lazio al Molise, dalla Calabria alla Sicilia – incarna una narrazione unica. La cucina veneta, con i suoi risi e bisi stagionali, riflette un rapporto simbiotico con i cicli agricoli del Delta del Po, mentre quella calabrese, piccante e robusta, evoca resilienza contro la povertà storica e l'isolamento montano.
La cucina italiana patrimonio dell’umanità, per l’Unesco «favorisce l’inclusione e rafforza i legami»Nel mosaico culturale della cucina italiana, la Calabria emerge non come un'entità monolitica, ma come un arcipelago di "Calabrie" – un plurale che riflette la frammentazione geografica, storica e culturale di questa terra stretta tra mari e monti. Il cibo in “Calabrie” non è mero sostentamento, ma è un atto performativo di resistenza. E’ un rituale che tocca memoria collettiva, identità locale e lotta contro l'oblio. Come ha osservato Vito Teti, la tavola calabrese è un "fatto sociale totale", un incontro complesso di geografia, produzione agricola, usanze pastorali e marine, dove ogni piatto diventa un palinsesto di influenze: dalle eredità greche e romane sulle coste ioniche, alle contaminazioni arabe e normanne nell'entroterra aspromontano, fino alle impronte francesi dell'era murattiana. Questa pluralità sfida l'idea di una "cucina calabrese" uniforme, rivelando invece microcosmi regionali: la robustezza piccante della Valle del Mésima, patria della 'nduja, contrasta con la delicatezza agrumata della Piana di Sibari, o con l'austerità contadina della Sila, dove formaggi come il caciocavallo silano sono rappresentativi di un'economia di sussistenza montana.
Il cibo calabrese, dunque, evoca una resistenza forgiata dalla penuria storica. Per secoli, questa terra di contadini, pastori e pescatori ha trasformato la scarsità in genio creativo: ingredienti spontanei come la borragine o i germogli di vitalba nelle frittate, o animali "selvatici" come ricci e tassi, narrano di un'intimità perduta con la natura, un rapporto simbiotico eroso dalla modernità e dall'emigrazione. Il proverbio popolare "quando si mangia, si combatte con la morte", ripeteva Ottavio Cavalcanti nei suoi corsi di Storia delle tradizioni popolari all’Università della Calabria, simboleggia questa dimensione esistenziale: ogni boccone è una battaglia contro la fame atavica, un'esorcizzazione della mortalità in tempi di miseria, dove la conservazione – sott'oli, salumi, rosamarina (un'antica conserva di pesce azzurro derivata dal garum romano) – non è solo tecnica, ma speranza incarnata, un modo per proiettare il presente nel futuro.
La memoria della fame, ancora viva tra gli anziani, contrasta con l'abbondanza odierna e gli sprechi, ma sopravvive nei riti festivi: le "scorpacciate memorabili" di Natale o Carnevale, con insaccati e dolci come i mostaccioli di Soriano, servono a mitigare disuguaglianze sociali, rendendo l'eccesso un atto collettivo di catarsi. La trasmissione del sapere culinario è un processo generazionale e gendered: sono le donne – madri, nonne, zie – le custodi di questi saperi secolari, che si manifestano nelle "feste sociali" della conservazione, come la preparazione di marmellate di clementine o salsa di pomodoro, veri culti familiari che rafforzano legami comunitari e combattono l'isolamento delle aree interne spopolate. Qui, il peperoncino – introdotto dopo Colombo e divenuto icona identitaria – è simbolo di ardore calabrese, dosato in segreti familiari per creare varianti uniche di 'nduja o soppressata, che variano da paese a paese, riflettendo un "terroir" antropologico: la Cipolla Rossa di Tropea sulla costa tirrenica evoca commerci marittimi, mentre i formaggi pecorini del Crotonese narrano di pastorizia transumante.
Eppure, questa ricchezza rischia l'essenzializzazione: stereotipi come il "mangiator di 'nduja e peperoncino" riducono la complessità a cartoline turistiche, ignorando la biodiversità di ortaggi, erbe, pesci e vini che, sempre Teti, invita a valorizzare. In un'era di globalizzazione, dove fast food e omologazione minacciano le tradizioni, giovani "restanziali" nelle zone interne riscoprono prodotti autoctoni come forme di resistenza culturale, un "restare" che lega il cibo alla rinascita identitaria. Le “Calabrie”, dunque, insegnano che il cibo è un ponte tra passato e futuro: non solo nutrimento, ma narrazione vivente di pluralità e umanità contro l'oblio.
Ricapitolando, non è una generalizzazione scorretta, come alcuni critici temono, ma una consapevole astrazione: l'"italianità" emerge non dall'uniformità, ma dalla polifonia. Questo mosaico polifonico sfida l'idea di una cultura omogenea, ricordandoci come le società umane prosperino nella diversità, dove il locale dialoga con il globale.
Al cuore di questa riconoscimento sta la trasmissione generazionale, un processo antropologico per eccellenza. In Italia, il sapere culinario non si apprende da manuali, ma attraverso l'osservazione e la pratica ritualizzata: nonne che impastano la pasta fresca con i nipoti, madri che tramandano segreti di famiglia durante i pranzi domenicali. È un'eredità orale, simile ai miti e alle leggende delle società tradizionali, che lega il presente al passato. Il pasto condiviso – quel "convivio" enfatizzato dall'Unesco – diventa un rito sociale, un momento liminale dove si negoziano ruoli familiari, si rinforzano legami comunitari e si celebrano cicli vitali, dalle feste religiose ai riti di passaggio. In un'era di fast food e individualismo, questa pratica resiste come un baluardo contro l'alienazione, promuovendo sostenibilità e biodiversità: oltre 5.000 prodotti tradizionali censiti, ognuno radicato in un terroir specifico, insegnano un rispetto per la terra che riecheggia le cosmologie indigene.
Eppure, come ogni riconoscimento culturale, questo porta con sé ombre antropologiche. Critici, specialmente dal Sud Italia, paventano un rischio di "nord-centrismo" o di stereotipizzazione: la comunicazione mediatica spesso riduce la cucina italiana a pochi piatti "da cartolina" – carbonara romana, ragù bolognese, tiramisù – oscurando la ricchezza periferica, come i vincisgrassi marchigiani o le panelle palermitane. È un fenomeno che gli antropologi chiamerebbero "essenzializzazione culturale": l'imposizione di una narrativa dominante che appiattisce la pluralità. Ma l'Unesco, coinvolgendo tutte le regioni, ha cercato di mitigare questo, enfatizzando il "filo conduttore" del valore sociale del cibo. È un invito a riflettere: in un contesto di migrazioni e cambiamenti climatici, come preservare questa diversità senza fossilizzarla?
In ultima analisi, la cucina italiana all'Unesco non è un trofeo gastronomico, ma un monito antropologico. Ci ricorda che il cibo è il tessuto connettivo delle società umane: un mezzo per negoziare identità, resistere all'omologazione e trasmettere memoria. Mentre il mondo accelera verso l'uniformità, l'Italia offre un modello di cultural resilience – una resilienza culturale – dove la varietà non è un ostacolo, ma la vera essenza dell'umanità. Che questo riconoscimento ispiri non solo turisti affamati, ma un ripensamento globale sul ruolo del cibo come ponte tra generazioni e culture. Dopotutto, come antropologi, sappiamo che ogni boccone racconta una storia. E la storia arriva da lontano, non da ieri.