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20/09/2025 ore 07.27
Attualità

«Definisci bambino»: dai salotti televisivi alla tragedia di Gaza, le parole che cancellano l’umanità

La frase choc pronunciata da Eyal Mizrahi, presidente della federazione Amici d’Israele durante un dibattito sulle vittime della guerra. Eppure un bambino morto non può essere considerato un danno collaterale, né una variabile strategica di un conflitto

di Mario Saccomanno
Bambini palestinesi alla ricerca di cibo a Gaza (Foto Ansa)

Ci sono frasi che non appartengono al dibattito civile, ma stramazzano dritte nell’abisso morale. Una di queste è rimbombata nello studio di “Cartabianca” nel momento in cui Enzo Iacchetti, soffermandosi sulle vittime civili di Gaza, fra le quali vi sono, com’è tristemente noto, svariati bambini, si è sentito rispondere da Eyal Mizrahi, presidente della federazione Amici d’Israele: «Definisci bambino». A ben vedere, non si tratta soltanto di una caduta di stile, ma di un cortocircuito morale che lascia senza parole.

Intanto, un bambino non ha bisogno di definizioni: esiste, punto. Il suo è un corpo fragile che cresce e che, incarnando la promessa di un’umanità futura, dovrebbe rimanere sacro e inviolabile. Mettere in discussione questa certezza primordiale vuol dire andare oltre, in modo deliberato, la soglia del disumano.

Per capire quanto sta accadendo in Palestina, si può far leva sui numeri. Secondo Save the Children, in quasi ventitré mesi di conflitto a Gaza sono stati uccisi almeno ventimila bambini. Tradotto, vuol dire più di uno ogni ora trascorsa. L’Unicef conta diciottomila minori morti sotto i bombardamenti, deceduti per fame o per mancanza di cure mediche. Il Ministero della Sanità di Gaza ha accertato oltre undicimila vittime fra i minori. È facile affermare che si tratta di numeri (che, purtroppo, continuano a crescere) che gridano l’orrore con una forza assordante. Eppure, nei salotti televisivi finiscono per essere, ancora oggi, troppo spesso un mero sfondo scenografico.

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Quando il dibattito televisivo diventa spettacolo (“show”, per l’appunto) il dolore umano non è altro che allestimento scenico. Le parole, invece di gettar luce sulla verità, non fanno che anestetizzare le coscienze. Dal confronto si giunge a un’arena in cui l’orrore viene relativizzato, ridotto a provocazione o a battuta di cattivo gusto. È in questo contesto degradato e degradante che frasi come «definisci bambino» trovano terreno fertile. Dunque, non un semplice errore comunicativo, ma l’avvisaglia di una deriva morale collettiva.

La Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia stabilisce chiaramente che qualsiasi bambino ha diritto inalienabile alla vita, alla protezione e alla salute. Pertanto, non serve in alcun modo “definirlo”, ma è necessario rispettarlo in modo indistinto e nel concreto. Metterne in discussione la stessa esistenza (e forza) semantica viola non solo un principio morale sostanziale, ma un caposaldo giuridico che è riconosciuto universalmente.

La storia insegna, soprattutto attraverso le sue pagine più buie, che il linguaggio può trasformarsi con semplicità in un’arma letale. È facile notare, per esempio, come la Shoah non iniziò affatto nelle camere a gas, ma ben prima, con parole come “parassiti” o “subumani”. Si trattò di termini che ridussero in modo progressivo, al punto da cancellarla, l’umanità di milioni di persone. In Ruanda, il termine spregiativo “inyenzi” (“scarafaggi”) finì per legittimare (dal punto di vista morale) un genocidio. In fin dei conti, si tratta di quanto ebbe a dire il filosofo francese Albert Camus: «Mal nominare le cose è aggiungere sventura al mondo».

Nel dibattito internazionale sul massacro in corso, le parole contano. Di sicuro, hanno un peso quando vengono utilizzate da giuristi, quando le pronunciano le vittime e hanno un valore quando provengono da figure simboliche. In merito, di recente, lo scrittore israeliano David Grossman ha parlato apertamente di “genocidio”, rompendo un tabù: «Per anni ho evitato di usare questa parola, ma oggi non posso più trattenermi. È genocidio ciò che accade a Gaza». Traspare facilmente quanto la sua sia una voce dolorosa, radicata in una lunga storia di impegno etico.

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Non è l’unico caso: il presidente della Fondazione Gariwo, Gabriele Nissim, pur dedicando la sua vita alla memoria della Shoah, ha avuto il coraggio di definire quanto accade a Gaza come genocidio. Ancora, in Israele e ovunque nel mondo ci sono decine di migliaia di intellettuali, giuristi, scrittori e attivisti che gridano contro quanto sta accadendo ai danni dei palestinesi. A tal proposito, il sociologo Zygmunt Bauman ammoniva: «La lezione di Auschwitz non può essere: mai più agli ebrei. Deve essere: mai più a nessuno». Dunque, questo per dire che il silenzio, ancor di più quando si ha un’autorità morale, non può mai essere neutro. Così, agire con cautela, soprattutto in certi momenti storici, può valere quanto una presa di posizione

Del resto, le Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia e numerosi esperti di diritto internazionale convergono nel dire che i crimini commessi da Israele a Gaza rientrano a tutti gli effetti nella definizione di genocidio prevista dalla Convenzione del 1948.

Detto ciò, nelle carambole terminologiche, persino assumere una posizione netta sembra essere diventato una sorta di esercizio di equilibrismo. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha avuto modo di dichiarare che a Gaza «succedono cose inaccettabili, ma non c’è giuridicamente genocidio».

Non si tratta in alcun modo di “imporre” un’etichetta, ma di riconoscere che il diritto internazionale esiste anche per chi vive oggigiorno in Palestina, nella striscia di Gaza.

Di sicuro, la prudenza nel nominare il genocidio rischia di diventare una forma di complicità silenziosa. Quanto accade a Gaza si nutre anche del linguaggio e non può essere considerato un incidente o una sproporzione difensiva. Ecco perché chiamarlo col proprio nome non è un mero esercizio retorico, ma un aspetto alquanto rilevante.

A conclusione, la frase «definisci bambino» può essere letta pure come uno dei riflessi di un articolato processo di negazione linguistica (e, conseguentemente, morale). Un bambino morto non può essere un danno collaterale, né una variabile strategica di un conflitto. Un bambino morto è un bambino morto, ha la definizione in sé, con tutto il peso intollerabile che questa realtà comporta. Tutte le volte che questa verità elementare viene rannuvolata dalla retorica, non si perde soltanto un dato statistico, ma si offusca la misura stessa della realtà e dell’umanità.

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