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15/03/2025 ore 06.15
Attualità

Il dramma del carcere nel diario di un ex detenuto calabrese: «Passo il tempo a guardare il soffitto con la paura di non esistere più»

Mario ha vissuto l’esperienza del penitenziario. Dove la vita diventa spesso impossibile, tanto che qualcuno decide di rinunciarvi. Oppure vi si aggrappa, come lui, affidando a carta e penna le proprie emozioni

di Mariassunta Veneziano

Di quel momento Mario ricorda prima di tutto i rumori. Di passi, il tocco pesante sul pavimento che diventa rimbombo sulle pareti, sul soffitto, per poi andare a piazzarsi al centro del petto, da dove forse non uscirà più se non per tornare a galla durante la notte, in quelle notti lunghe in cui sforzarsi di tenere gli occhi chiusi sembra l’unico modo per non far entrare quello che c’è fuori. Ma i pensieri non hanno bisogno di occhi. Al buio, escono dalle tane come pipistrelli impazziti. E i rumori sono di nuovo tutti lì. I passi e poi un cigolio, un tintinnare di chiavi, lo sferragliare dei cancelli.

Mario è calabrese ma il suo è un nome di fantasia. Perché Mario è solo uno dei tanti. Quasi 62mila, secondo gli ultimi numeri disponibili. Sono i detenuti nelle carceri italiane, al centro in questi anni di continui appelli e allarmi, accompagnati spesso da casi di cronaca. Antigone, l’associazione che dal 1991 si occupa del sistema penitenziario, nel suo ultimo rapporto parla di un sovraffollamento del 130%. Un dato che racchiude condizioni di invivibilità che non troppo raramente sfociano in vicende tragiche. Perché la detenzione, da processo rieducativo e riabilitativo, facilmente diventa un viaggio all’inferno, un pozzo in cui l’umanità viene risucchiata e la risalita in superficie richiede muscoli e ossa, ma soprattutto nervi forti.

A pagare il prezzo più alto non sono criminali conclamati, ma persone “normali” che hanno sacrificato la propria normalità sull’altare di scelte sbagliate. O, peggio, finite nel tritacarne di accuse che poi si rivelano sbagliate. Sono in tanti quelli che non ce la fanno, che in quel pozzo si lasciano affogare. Perché ci sono fragilità non viste prima e ignorate dopo. Uno degli ultimi suicidi in carcere di cui si è avuta notizia riguarda un uomo di origini calabresi, un 55enne che si è impiccato nella sua cella a Vigevano, dove era detenuto per una rapina da 55 euro. Arrestato a dicembre scorso, avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2027. A gennaio si è tolto la vita.

Chi può invece vi si aggrappa alla vita, cercando uno sfogo alle proprie emozioni, per non lasciarsene sopraffare. Per qualcuno basta qualche foglio di carta e una penna. Per Mario è stato così. I suoi stati d’animo sono diventati un diario e il diario è diventato un amico a cui confidare rimpianti, speranze, paure anche. Quelle che ti assalgono di notte, quando il carcere mostra «i suoi lati spettrali, la sua dimensione nascosta» in cui tutto è «avvolto dentro un silenzio minaccioso, dove addirittura si possono avvertire presentimenti di cose fatali».

Un giorno hanno arrestato Mario e lo hanno portato in cella in attesa di giudizio, a Viterbo. Poi le contestazioni a suo carico sono state ridimensionate e ha ottenuto la scarcerazione. A decidere il resto sarà la sentenza del processo ancora in corso. L’esperienza vissuta, però, gli è rimasta addosso. E neanche un’eventuale verdetto di innocenza potrà lavarla via.

Il carcere non si dimentica e il Mario di oggi non dimentica quello di ieri che si sveglia di notte, dietro le sbarre, oppure che non riesce proprio ad addormentarsi. E così scrive. Per non permettere alle ombre di inghiottirlo. «Cerco di sforzarmi, d’immaginare e vivere al meglio una condizione di normalità». Nelle sue parole, la fatica di non darla vinta a quel tempo che all’improvviso ha preso a scorrere lentamente, scandito da giornate una uguale all’altra.

«La vera sfida – riflette Mario sul suo diario – è diventata oggi riuscire a uscire dalla visione avvilente della carcerazione e puntare a una visione avvincente della stessa, riuscire così a cogliere e a ritrovare la straordinarietà nell’ordinario», scovare anche nel piattume della detenzione aspetti «inattesi e sorprendenti, senza avvertire costantemente, proprio per la mancanza di libertà, un senso di inferiorità rispetto a chi vive “al di fuori”».

Ma fuori c’è anche chi sconta un’altra pena, quella dell’attesa. E lì spesso si posano i pensieri. «Una storia come la mia non può che lasciare il segno – si legge ancora –. Un segno indelebile dentro di me, nella mia mente, sulle mie mani, nelle mie rughe, ma anche inevitabilmente nei miei affetti più cari».

«L’indeterminatezza del tempo» diventa così storia condivisa, «la nostra storia», in cui «le emozioni sul presente e sul futuro hanno inequivocabilmente perso il loro fascino legato alla progettualità, che si è smarrita, si è dissolta, all’interno di una zona grigia». E anche l’amore cambia. E quando non si spegne diventa «più vivo, fertile, attivo».

Sono scintille di luce nelle tenebre. Momenti in cui non tutto sembra perduto. Rinchiuso in una cella, Mario li insegue questi momenti: «Nonostante sia quasi impossibile, cerco comunque di scovare, in questo spicchio di comunità, la bellezza, lo stupore, come fattori capaci di aiutarmi a ripensarmi nel mondo, e ogni giorno, esercitandomi nel vederli, provo a cambiare in meglio me stesso».

La speranza, in carcere, è una compagna che non abbandona mai completamente. Ma non riesce a nascondere il resto. La «sofferenza» che non passa, «sempre presente» anche se «silenziosa». Quasi sempre non vista. «Faccio parte di quelle anime – scrive ancora Mario – su cui bisognerebbe saper posare lo sguardo».

Mentre lo sguardo di chi sta dentro vorrebbe correre oltre l’orizzonte ristretto di un panorama dove tutto ciò che cambia è l’alternarsi del giorno e della notte. E quel desiderio finisce di nuovo su un foglio, per evitare che diventi follia: «Vorrei tanto svegliarmi e riuscire a guardare lontano, possedere una visuale, una veduta ampia, allargata, infinita». Fino ad abbracciare «le città lontane» e dimenticare i «momenti terribili» vissuti «con l’angoscia continua di finire nel tritacarne delle mie persecuzioni, delle mie ossessioni, del mio monologo di pensieri».

«Essere a piedi nudi su una spiaggia, a guardare la sabbia, a sentire il suo calore sotto di me». Ecco cosa sogna Mario tra quattro mura, mentre aspetta di essere giudicato per ciò di cui lo hanno accusato. Come lui, tanti. «Spero e prego che questa storia possa concludersi il più presto possibile, perché mi sento “devastato”. Ho ben capito, durante le giornate di reclusione, cosa significhi passare il tempo senza testimoni, sdraiato a guardare il soffitto, per ore, con la paura di non esistere più, pensando di trasformarmi, da un momento all’altro, in un automa, un uomo non più capace di provare sentimenti autentici».

E forse, anche adesso che Mario è fuori ma che non tutto è finito, questi pensieri tornano. E di notte si mescolano alla paura, al ricordo spaventoso di quel passato che è «una terra abitata da soggetti troppo diversi da me, persone sanguinarie, arrabbiate, disturbanti, spaventevoli». Mentre il presente stringe la mano al futuro. E in quel futuro c’è la volontà di cambiamento, perché nulla potrà essere più come prima. In qualsiasi caso. «Oggi, la mia parola d’ordine è e deve essere “ripensarmi”, per inventare il mio domani, iniziando con il mettere in discussione ciò che sono stato. Mi auguro davvero, e con tutto il cuore, che tale processo si compia, che io ci possa riuscire davvero».