Il ritorno in Calabria dei pendolari dell’anima: uno sguardo autentico sulle vacanze tra chi resiste e chi semina speranza
Il rientro da Roma per le Festività natalizie e l’abbraccio con la propria terra, tra luci e ombre. E l’idea di rimanere, non per romanticismo ma per cambiare davvero le cose in nome di un legame che non è nostalgia ma responsabilità
Arrivo sempre presto, perché a quell’ora gli autobus costano meno, d’inverno ancora deve fare giorno, tengo con le mani un trolley che conosce ormai a memoria l’asfalto sdrucciolevole dell’autostazione di Cosenza. Fuori come ogni mattina il freddo intorpidisce il mio volto.
È sempre così: il primo respiro è casa, il secondo è un inventario rapido, involontario ed incosciente di ciò che è cambiato e di ciò che è rimasto uguale. Le luci di Natale fanno il loro dovere: coprono con grazia e delicatezza quello che non vogliamo vedere.
In macchina incrocio gli sguardi mattinieri dei più grandi o di chi deve andare a lavorare, sono gli stessi da anni mentre gli anni, invece, cambiano. C’è chi ha aperto un micro–laboratorio artigiano, chi spedisce prodotti tipici in mezza Europa, chi ha provato a portare qui un pezzo di digitale. Qualcosa si muove mentre la bellezza naturale fa il resto: il vento della Sila che arriva fino giù, il Tirreno che promette tramonti anche d’inverno.
Poi, appena fai un passo un po’ più in là, vedi cantieri senza fine, strade rappezzate, autobus che non arrivano e treni che non passano. L’ansia di chi cerca un lavoro e trova un contratto a settimana. La domanda che ti fanno tutti, subito, come un rito: “E quando riparti?”.
Passo davanti all’ospedale. Dentro ci sono amici e amiche che fanno i turni di notte, con la testa bassa e le occhiaie alte. La sanità è la misura reale della distanza tra quello che diciamo e quello che siamo. Reparti che reggono per professionalità e sacrificio, non per programmazione. Liste d’attesa che sfilacciano i legami, perché per una visita finisci a chilometri da casa. Qualcuno sta preparando i documenti per il trasferimento al Nord, qualcun altro studia per partire all’estero. Nessuno lo dice ad alta voce, ma il futuro qui costa più fatica.
Tra i bar e le piazze rivedo gli amici del liceo. C’è chi fa il pendolare dell’anima: lavora lontano, vive a metà. C’è chi è tornato e ci sta provando con un B&B, con una piccola azienda agricola, con il turismo lento. Resistenze ostinate che raccontano un’altra Calabria, non perfetta né patinata, ma concreta. Si sente un’energia che non si mette in vetrina: associazioni che tengono in piedi biblioteche, ragazzi che organizzano rassegne, gruppi che puliscono un sentiero.
Tra una cena e un abbraccio capisco che la cosa che più cambia sono gli occhi con cui guardo i luoghi. Roma mi ha insegnato la velocità, qui torno a misurare il tempo con il passo umano. È una scuola che non puoi trovare sui manuali: se in ospedale hai imparato protocolli e procedure, in Calabria impari a stare, ad ascoltare, a fare con quello che c’è. È una competenza che non appare nel curriculum, ma che vale quando serve tenere insieme le persone.
C’è anche quello che non vorresti rivedere. Le retoriche stanche, le inaugurazioni infinite, la politica che arriva a Natale per farsi la foto e riparte più veloce del Freccia. La rassegnazione che entra in casa con la stessa naturalezza del freddo. I talenti che se ne vanno in silenzio, uno a uno, finché alla fine sembriamo meno di quelli che siamo.
Eppure, dentro tutto questo, ci sono segnali che non voglio perdere. Una libreria piena in un pomeriggio di pioggia. Un laboratorio di robotica in una scuola di provincia. Un medico in pensione che fa volontariato nel poliambulatorio cittadino. Un gruppo che raccoglie fondi per riaprire un teatro. Semi minuscoli che chiedono soltanto di essere protetti, non celebrati.
La Calabria che vedo nelle vacanze natalizie è una promessa a metà: potrebbe essere molto di più, non è ancora quello che merita. E allora mi chiedo che cosa posso fare io, da fuorisede che ama e soffre questo posto. La risposta è meno eroica di quanto sembri: mettermi a disposizione. Portare qui competenze, mettere ordine dove c’è caos, usare quello che studio per dare metodo alle intuizioni buone. Non serve salvare tutto: basta costruire pezzi di normalità e difenderli nel tempo.
Questa terra ti mette alla prova con la sua bellezza e con la sua fatica. Ti chiede pazienza e ti restituisce radici. Ogni volta che riparto capisco che il mio legame non è nostalgia: è responsabilità. Se un giorno resterò, non sarà per romanticismo ma per lavoro vero, per un progetto che tenga insieme sanità, istruzione, mobilità, cultura. Fino ad allora, torno e riparto, come tanti. Ma ogni volta lascio qui un pezzetto in più di ciò che so fare, e mi porto via una richiesta precisa: non accontentarti, non abituarti, non smettere di pretendere serietà.
La Calabria di sempre non esiste più. Esistono molte Calabrie che coabitano nello stesso spazio: quella che resiste, quella che arretra, quella che prova a crescere. Sta a noi decidere quale alimentare. A Natale lo capisci meglio, perché hai il privilegio di guardarla con due paia di occhi: quelli di chi è partito e quelli di chi non se n’è mai andato. In mezzo, c’è la strada da fare.