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22/11/2025 ore 06.30
Attualità

La Calabria degli agrumi si regge sui lavoratori stranieri: storie di sacrificio e isolamento dietro il muro dell’integrazione

La manovalanza extracomunitaria, oramai indispensabile per l'agricoltura calabrese, vive un isolamento culturale e sociale che rievoca le sfide affrontate nel passato dai migranti italiani

di Franco Sangiovanni

Nelle vaste e fertili aree della Calabria dove il giallo acceso degli agrumi si fonde con il verde delle foglie di olivo, si celebra ogni anno il rito della raccolta, un momento cruciale per l'economia agricola regionale. Il merito di questa presenza lavorativa spetta oggi a una forza che, sebbene indispensabile, è socialmente marginalizzata, sono i lavoratori stagionali, in maggioranza extracomunitari con prevalenza pakistana. Questi uomini (ma anche donne) affrontano la fatica fisica estrema e la costante minaccia della precarietà, spinti dalla necessità e dalla speranza.

Il loro sacrificio, compiuto spesso per retribuzioni minime e in condizioni abitative inadeguate (ma a cui non si ribellano), ha l'unico e potente obiettivo di assicurare un futuro dignitoso alle famiglie rimaste nella terra d'origine. Questa dinamica evoca immediatamente il passato. Non si può fare a meno di tracciare un parallelo storico con le storie strazianti dei nostri connazionali italiani, i contadini e gli operai che, tra la fine dell'Ottocento e il secondo dopoguerra, abbandonarono il Bel Paese per cercare fortuna nelle miniere del Belgio, nelle fabbriche svizzere e tedesche, in sudamerica o nelle metropoli americane.

Erano anch'essi visti come "diversi", sottoposti a sfruttamento e costretti all'isolamento linguistico e culturale. È un ciclo della storia che si ripete con sorprendente, seppur amara, fedeltà, i nuovi braccianti immigrati sono i nostri 'italiani d'America' di questo secolo. Lavorano duramente, inviano rimesse essenziali a casa e convivono con la solitudine, pur di garantire un'eredità migliore ai loro figli.

Se il lavoro nei campi rappresenta il punto di contatto economico, la vita al di fuori di esso è segnata da una profonda frattura dove l’integrazione con la popolazione italiana è quasi inesistente. L'assenza di occasioni di scambio e la distanza tra le rispettive matrici culturali e religiose (la stragrande maggioranza dei lavoratori è di fede islamica) creano una barriera invisibile ma palpabile. Questi lavoratori vivono e si muovono come in un "quartiere autonomo" interno alla città o al paese ospite.

Al di fuori delle ore di raccolta, ogni minuto libero è trascorso esclusivamente tra connazionali. La necessità di trovare conforto e comprensione in un ambiente familiare spinge questi gruppi a una coesione interna molto forte, ma che al tempo stesso li isola dal tessuto sociale locale. Questo “isolamento” si manifesta chiaramente nello spazio pubblico. Non è raro osservare gruppi di lavoratori stranieri che percorrono le strade per le necessità quotidiane, come recarsi nei negozi, mantenendo un contegno e delle dinamiche di gruppo che li distinguono nettamente.

In mano, lo smartphone è l'oggetto sacro che li lega alla vita vera, quella lontana. Impegnati in lunghe telefonate con la moglie, i genitori o i figli, usano la tecnologia come un cordone ombelicale emotivo che li preserva dall'oblio e dalla disconnessione totale. La differenza di vita è evidenziata anche in momenti apparentemente banali, come il riposo. Stare seduti sulle panchine pubbliche o nei piccoli giardini diventa un atto che, per abitudini e modalità, pone i lavoratori in contrasto visivo e sociale con la popolazione locale, marcando una distinzione che va oltre la lingua e arriva alle radici delle consuetudini.

Di fronte a questa realtà, la Calabria e l’intera nazione non possono limitarsi a riconoscere l'apporto economico di questa manodopera. È imperativo che la società, memore del proprio passato migratorio, intensifichi gli sforzi per superare lo sfruttamento e l'isolamento. Riconoscere e rispettare la dignità di questi lavoratori non è solo un dovere etico e umano, ma una strategia per il futuro.

Creare ponti di dialogo, promuovere canali di integrazione che tengano conto delle differenze culturali e religiose e garantire condizioni di vita eque sono passi fondamentali. Solo così si potrà onorare la memoria degli italiani che emigrarono e assicurare che la ricchezza dei nostri campi non sia pagata al prezzo di una vita ai margini per coloro che ce la rendono possibile. E chi scrive è figlio di operai emigrati in Svizzera per garantire quello che oggi può vantare.