La generazione sospesa: i trentenni calabresi tra rassegnazione, rabbia e voglia di futuro (che qui non c'è)
Tra partenze e ritorni, precarietà e orgoglio, c'è un Sud che chiede di non dover più scegliere tra dignità e sopravvivenza. E aspetta il domani in silenzio, tra rassegnazione e orgoglio
Non siamo una generazione perduta. Siamo una generazione in attesa. Non abbiamo perso il treno: ci hanno fatto aspettare su un binario morto, mentre dagli altoparlanti arrivavano parole come “opportunità”, “rilancio”, “futuro”. Tutti termini che, in Calabria, valgono meno di un biglietto obliterato.
Siamo cresciuti con l’idea che lo studio fosse la chiave di tutto. Abbiamo creduto che lauree, master e sacrifici ci avrebbero consegnato un posto nel mondo. Poi ci siamo accorti che il mondo, o almeno quello intorno a noi, non aveva alcuna intenzione di aprirsi. Qui il merito è un sospetto, la competenza un fastidio, la novità un pericolo. In molti ambienti, chi sa è guardato con diffidenza, come se la conoscenza fosse un virus da isolare.
Molti di noi se ne sono andati. Milano, Torino, Londra, Berlino. Non per ambizione, ma per sopravvivenza. Per respirare un’aria diversa, per credere che da qualche parte la parola “futuro” potesse ancora avere un senso. Ma partire non significa liberarsi. Ogni trentenne calabrese che vive lontano porta con sé una nostalgia sporca, fatta di amore e rabbia. Di senso di colpa e di mancanza. Perché andarsene non è mai una vittoria: è una resa travestita da coraggio.
E chi resta, spesso, vive in un limbo. Troppo qualificato per lavorare, troppo stanco per lottare, troppo lucido per illudersi. Vive tra piccoli lavoretti, bandi, concorsi infiniti e promesse di assessori che sorridono solo sotto elezione. È la generazione del “vediamo”, del “aspettiamo che cambi qualcosa”. Una generazione che non è più giovane ma non è ancora riconosciuta come adulta. Una generazione sospesa.
In Calabria, il successo ha cittadinanza solo quando accade altrove. Quando un ragazzo parte e ce la fa, diventa motivo d’orgoglio collettivo: «È uno dei nostri». Ma fino al giorno prima nessuno sapeva chi fosse. È l’ipocrisia di una terra che non premia il talento, ma lo celebra solo quando non dà più fastidio. Qui il genio deve emigrare per essere riconosciuto, e il fallimento si trasforma in una forma di identità. «È la Calabria, cosa vuoi farci?». Questa frase, ripetuta come una preghiera, è la più potente arma di rassegnazione che esista.
Eppure, nonostante tutto, c’è chi resta. Non per mancanza di alternative, ma per scelta. Giovani che aprono librerie indipendenti, cooperative culturali, piccole imprese digitali, scuole di teatro nei paesi spopolati. Sono pochi, spesso soli, ma esistono. Vivono senza padrini, senza partiti, senza grandi mezzi. Eppure ogni giorno seminano futuro in un terreno che tutti dicono arido. Lo fanno con la testardaggine di chi non si rassegna al cliché, di chi vuole dimostrare che la Calabria non è solo cronaca nera o clientelismo, ma anche ostinazione, creatività e voglia di restare umani.
Forse non cambieremo il mondo, ma abbiamo ancora un privilegio: la lucidità.
Sappiamo che la speranza, da sola, non basta. Ma senza speranza non si costruisce nulla. Non chiediamo assistenza, chiediamo diritto di cittadinanza nella modernità. Chiediamo di non dover più scegliere tra la dignità e la sopravvivenza.
La nostra generazione non è pigra, non è svogliata, non è “disinteressata”. È solo stanca di rincorrere promesse. E se oggi non protesta più come un tempo, non è per rassegnazione: è per mancanza di ascolto. Ma la pazienza non è silenzio. È solo la forma civile della rabbia.
C’è un Sud che pensa, crea, resiste e aspetta il suo turno da troppo tempo.
Ed è proprio da lì — da questa generazione sospesa tra genio e resa — che potrebbe arrivare, un giorno, la più imprevista delle rivoluzioni: quella della normalità.