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24/11/2025 ore 09.32
Attualità

La Locride guarda alla fusione: unire 42 Comuni può essere una svolta, ma serve un progetto

La proposta di un unico comune da 120mila abitanti riaccende il dibattito sulla frammentazione amministrativa in Calabria. Ma senza una vera strategia partecipazione civica e un chiaro disegno regionale, il rischio è di trasformare una spinta riformatrice in un’altra occasione mancata

di Francesco Aiello*

Ogni volta che in Calabria si torna a parlare di fusioni tra comuni – come sta avvenendo in questi giorni con la proposta della sindaca di Siderno, Mariateresa Fragomeni, di dar vita a un unico grande comune della Locride – riemerge uno dei nodi strutturali più rilevanti della regione: la frammentazione amministrativa.
La proposta oggi in discussione ipotizza l’unificazione dei 42 comuni del comprensorio in un unico ente locale di circa 120 mila abitanti, con una capacità produttiva certamente non trascurabile – per la quale, tuttavia, mancano stime attendibili – all’interno di una regione che nel complesso vale 36 miliardi di euro di PIL e l’ambizione esplicita di costituire, dopo Reggio Calabria, il secondo polo urbano della regione.

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La Calabria conta 404 comuni, molti dei quali di piccolissime dimensioni, chiamati a garantire funzioni complesse di governo del territorio e di erogazione dei servizi, con organici esigui, bilanci compressi e capacità tecnica e amministrativa limitata. La Locride è, non a caso, uno dei territori in cui più chiaramente si intrecciano spopolamento, debolezza infrastrutturale, forte potenziale turistico e difficoltà a intercettare in modo stabile investimenti pubblici e privati: un laboratorio naturale per interrogarsi su quale scala sia oggi sostenibile governare i servizi e programmare lo sviluppo. In questo perimetro convivono realtà molto diverse: comuni costieri di medie dimensioni e piccoli municipi delle aree collinari e montane interne, con bisogni di servizio e condizioni strutturali molto eterogenee.

Questo disegno istituzionale, fondato oggi su 404 comuni e pensato per un’altra epoca, alimenta inevitabilmente inefficienze: si traducono in un livello di servizi più basso di quello atteso dai cittadini e in costi unitari per residente più elevati. Non è irragionevole ritenere che, prima o poi, il Consiglio regionale sarà chiamato a intervenire in modo organico e sistemico, ridisegnando la geografia amministrativa dei comuni, perché l’assetto attuale – se rapportato alle sfide demografiche, fiscali e organizzative – è semplicemente insostenibile nel medio periodo.

Fusione dei comuni della Locride, la proposta di Fragomeni può cambiare la geografia della Calabria

La proposta che viene oggi dalla Locride non è un unicum. Iniziative analoghe sono maturate, in forme diverse, a Vibo Valentia, nell’area dell’Angitola, a Rosarno, Gioia Tauro e Polistena e in altre parti della regione. Il tratto comune è però la loro discontinuità. Questi percorsi nascono spesso come reazione a problemi contingenti – una crisi di bilancio, un’emergenza di servizi, un’opportunità di finanziamento, l’episodica consapevolezza di un declino persistente – e si reggono sulla spinta di singole persone (amministratori particolarmente motivati, comitati civici, associazioni). Ciò che manca è un impianto strutturato, capace di durare nel tempo, dentro cui collocare momenti di informazione, consultazione e deliberazione collettiva. Senza un quadro procedurale chiaro e condiviso, il dibattito sulle fusioni si consuma nella cronaca del giorno, si polarizza tra schieramenti favorevoli e contrari, ma fatica a sedimentare in una discussione informata su cosa significhi davvero ripensare la scala del governo locale. Tra lo status quo e la creazione di un comune unico esiste, peraltro, un ventaglio di soluzioni intermedie – unioni di comuni, gestioni associate di singole funzioni, uffici sovracomunali condivisi – che potrebbero costituire il percorso graduale lungo cui testare, valutare e consolidare passo dopo passo l’integrazione amministrativa, invece di concepirla come un salto istituzionale istantaneo.

Unione dei Comuni della Locride, serve una strategia

In questo quadro il ruolo della Regione Calabria è decisivo: definire una strategia di riordino dell’assetto comunale, individuare alcune aree-progetto prioritarie, offrire supporto tecnico e strumenti di accompagnamento ai sindaci, condizionare gli incentivi non solo all’atto formale della fusione, ma alla qualità dei progetti di riorganizzazione dei servizi e alla partecipazione delle comunità locali. Senza una regia regionale riconoscibile, le iniziative restano inevitabilmente affidate alla capacità dei singoli amministratori e alle contingenze del ciclo politico, con esiti disomogenei e spesso effimeri.

Nel caso specifico della Locride, l’iniziativa della sindaca di Siderno si innesta sul tema, serio, dei tagli alla spesa pubblica previsti nella legge di bilancio. Si tratta dei ridimensionamenti dei trasferimenti agli enti locali, che la stessa sindaca giudica particolarmente gravosi per i comuni del Sud, dove bilanci già compressi rendono ancora più difficile salvaguardare i servizi essenziali. È comprensibile che questi tagli diventino il detonatore politico del dibattito; tuttavia, se restiamo solo su questo piano, la discussione risulta parziale e, in ultima analisi, fuorviante. Il cosiddetto “bonus fusioni” che premia i comuni che decidono di unirsi – ammonterà a 2 milioni di euro all’anno – non può realisticamente compensare, in maniera stabile, i tagli cumulati alla finanza locale. Interpretare la fusione come un mero espediente finanziario volto a “far quadrare i conti” significa sopravvalutare l’effetto dell’incentivo e sottovalutare la struttura dei bilanci comunali, riducendo l’operazione a una misura contabile di breve periodo.


Se, invece, si guarda alla fusione come strumento per recuperare efficienza, riorganizzare funzioni, ridurre duplicazioni, rafforzare la capacità tecnica e progettuale, essa assume una natura del tutto diversa: devono essere i guadagni di efficienza, nel medio periodo, a liberare risorse e creare margini per l’azione amministrativa dei comuni e per politiche di sviluppo locale più ambiziose.

Nel dibattito di queste ore si richiama spesso un altro elemento: la fitta filiera istituzionale che collega la Locride al Consiglio regionale e alla Giunta, con la presenza di più rappresentanti di quel territorio nei ruoli di vertice della maggioranza. Si tratta, senza dubbio, di un fattore favorevole, perché può facilitare il dialogo con la Regione e accelerare alcuni passaggi decisionali. È, però, una condizione necessaria, non sufficiente a consolidare un processo di fusione. Lo dimostra il caso, tutt’altro che lontano, del referendum sull’area urbana Cosenza–Rende–Castrolibero: anche lì i principali promotori della città unica erano consiglieri regionali espressione dell’area politica di maggioranza, e tuttavia il corpo elettorale ha respinto la proposta. Il referendum era formalmente consultivo, ma il suo esito ha avuto un peso politico evidente.

La lezione che se ne può trarre è chiara: la coerenza e i legami istituzionali sono importanti, ma non bastano. Senza un progetto che preveda, nel medio periodo, il coinvolgimento sistematico di associazioni, cittadini, corpi intermedi, la fusione difficilmente giunge a compimento; e, qualora ci arrivasse, rischierebbe di farlo in modo fragile e conflittuale. Non è un caso che le uniche due fusioni andate a buon fine in Calabria – Corigliano Rossano e Casali del Manco – siano state rese possibili dalla spinta dal basso di comitati molto strutturati (il Comitato delle 100 associazioni nel primo caso, il Movimento Presila Unita nel secondo), che hanno accompagnato per anni il dibattito precedente al referendum, costruendo consenso informato e affrontando una per una le paure e le resistenze delle comunità. È questa combinazione di sostegno istituzionale e mobilitazione civica, più che l’allineamento politico tra livelli di governo, a fare la differenza tra una suggestione destinata a spegnersi e un percorso di riforma con reali possibilità di successo.

Qui si innesta il tema, decisivo ma troppo spesso semplificato, della dimensione del nuovo comune. L’ipotetico comune unico della Locride – con circa 120mila abitanti – ricadrebbe in una fascia dimensionale in cui, in media, la spesa per abitante tende a essere elevata. Si tratta di una regolarità empirica che si osserva indipendentemente dall’insieme di comuni di riferimento (Calabria, Mezzogiorno, Italia). Questo dato va letto con cautela: non significa che “più grande è, più spreca”, ma che nei comuni di dimensioni medio-grandi si concentrano funzioni più complesse, una gamma più ampia di servizi, maggiori oneri organizzativi e infrastrutturali. La letteratura economica e l’esperienza comparata mostrano che le economie di scala non sono automatiche: si realizzano solo se la nuova entità è in grado di razionalizzare davvero l’apparato amministrativo, unificare servizi oggi duplicati, adottare tecnologie digitali, coordinare la pianificazione territoriale e la mobilità, ripensare la distribuzione degli uffici e dei presìdi sul territorio.

Le evidenze disponibili indicano che recuperi di efficienza – cioè minore spesa per ciascuna unità di servizio offerto – sono possibili anche per i comuni di maggiori dimensioni, ma ex ante non è noto in quali ambiti essi si manifesteranno, perché dipende dalle specificità dei diversi contesti territoriali: trasporto pubblico locale, gestione dei rifiuti, servizi sociali, solo per citare i più rilevanti. Individuare dove e quanto sia realistico attendersi guadagni di efficienza richiede lo studio del caso concreto e l’uso sistematico dei dati, più che l’affidamento alla percezione individuale che troppo spesso orienta il dibattito su questi temi. In questa prospettiva, l’analisi economica dei dati serve a comprendere il fenomeno e a orientare le scelte, oltre che a informare le comunità interessate, che in questo modo diventano cittadini più consapevoli. Ciò implica tempi adeguati per costruire scenari alternativi, condividere in modo trasparente le informazioni rilevanti, attivare percorsi deliberativi che vadano oltre il solo appuntamento referendario e consentano di valutare ex post gli esiti delle decisioni assunte.

In assenza di un disegno chiaro, il rischio è di sommare i costi di 42 piccoli comuni senza costruire una macchina amministrativa più efficiente, più trasparente e più capace di programmare. Per questo il tema della fusione non può essere ridotto a un esercizio cartografico: è una scelta di politica istituzionale che richiede analisi preliminari serie, simulazioni sugli effetti di spesa, valutazioni sull’assetto dei servizi e un confronto pubblico maturo con le comunità interessate. Ciò implica anche l’elaborazione di scenari quantitativi sui possibili effetti di una fusione, costruiti con metodi statistici adeguati e, soprattutto, interpretati alla luce di solide competenze economiche. Solo in questo quadro l’intuizione politica della sindaca di Siderno può diventare il punto di partenza di un progetto credibile di riforma del governo locale in Calabria, e non l’ennesima fiammata destinata a spegnersi con il prossimo ciclo di bilancio. Solo un approccio fondato su evidenze empiriche, partecipazione informata e responsabilità condivisa tra livelli di governo può trasformare il dibattito sulle fusioni da esercizio retorico a politica pubblica capace di produrre risultati misurabili nel tempo.

*Prof. Ordinario di Politica Economica DESF UniCal e Presidente OpenCalabria