La Naca, le confraternite e l’origine del “morzeddhu” al baccalà: storia della processione che unisce Catanzaro
Intervista al professore Oreste Sergi Pyrró tra tradizioni lunghe diversi secoli, fede e aneddoti poco conosciuti che rivelano l’identità della città capoluogo di regione. Ecco perché questa rappresentazione è unica e si distingue da tutte le altre che si svolgono in Calabria durante la Settimana Santa
Catanzaro si prepara alla processione del Venerdì Santo. La Naca, “la culla”, dal greco nachè, seguita dalla Madonna Addolorata, rappresentata col cuore trafitto da 7 spade, che simboleggiano i 7 dolori di Maria, quest'anno uscirà dalla Basilica dell'Immacolata. Mentre fervono i preparativi tra le confraternite che sfileranno lungo le vie del centro del centro storico, abbiamo raggiunto Oreste Sergi Pyrró, architetto, dottore di ricerca nonché attento conoscitore della storia della città di Catanzaro. Insieme a lui, abbiamo approfondito gli aspetti che caratterizzano la processione di Catanzaro, vero attrattore culturale e religioso del capoluogo di regione, e che al tempo stesso le conferiscono un carattere di unicità che distingue la Naca dalle altre rappresentazioni che si svolgono in Calabria durante la Settimana Santa.
Professore, ci spiega brevemente cosa caratterizza la Naca di Catanzaro e cosa la distingue dalle altre celebrazioni che si svolgono negli altri comuni della Calabria?
«La storia di Catanzaro è anche storia di fede e di tradizioni religiose popolari strettamente legate agli antichi sodalizi confraternali che, all’indomani del Concilio di Trento, animarono anche la vita sociale e comunitaria della città. Le confraternite di Catanzaro, così come altri costituiti all’interno dell’Orbe cattolico, si svilupparono a seguito della Controriforma e favorirono l’istituzione e la trasmissione di pii esercizi, che, nei secoli, si palesarono un mezzo idoneo ed efficace sia per la difesa della fede cattolica, sia per il nutrimento della pietà dei fedeli in un continuo confronto tra cultus, pietas e devotio. La storia della Naca affonda le sue radici proprio in questo periodo e rappresenta una sorta di “unicum” nel panorama delle tradizioni dei riti della Settimana Santa calabresi. Da secoli è allestita ed organizzata dalle quattro arciconfraternite cittadine (SS. Giovanni Battista ed Evangelista dei Cavalieri di Malta ad Honorem, SS. Rosario, Maria SS. Immacolata, Maria SS. del Carmine), antiche congregazioni che, annualmente a turno e secondo il loro secolare ordine di precedenza, gareggiano nell’allestimento della “naca” più bella. La “naca” indica nel dialetto catanzarese la culla, la quale, nel caso specifico, è costituita da una semplice vara di legno, sulla quale è fissata una struttura di ferro e, come afferma Fratea nel 1937, è la processione di penitenza del venerdì santo che “con proprietà, decenza ed anche con lusso, segue un itinerario ormai secolare, col simulacro del Gesù Morto, su di una bara, che ogni sodalizio fa a gara per comporre ed adornare nel modo migliore, con serici drappi e damaschi a ricami d’oro, con merletti e veli pregiatissimi, con fiori bellissimi e aulenti, e col simulacro della Vergine Addolorata”. Ho citato questa frase del 1937 in quanto proprio in quell’anno, mons. Giovanni Fiorentini, a seguito di alcuni disordini avvenuti durante le processioni della Naca, ne stabilì la cadenza annuale animata a turno dalle quattro confraternite».
Ma in cosa consiste, nello specifico, l'unicità della Naca?
«L’unicità sta nel fatto che la Naca non è una Via Crucis bensì una processione penitenziale che fino al 1937 si svolgeva ad iniziare dal Giovedì Santo e si concludeva a notte del Venerdì Santo con la partecipazione delle quattro congreghe che a turno, secondo prestabiliti e antichi ordini di precedenza, orari preordinati e percorsi fissati, percorrevano le vie della città visitando, reciprocamente i “sepolcri”. Ogni Arciconfraternita porta in processione il simulacro del Cristo deposto e dell’Addolorata preceduti dalle croci di penitenza che a turno, i confratelli vestiti di sacco e coronati di “sparacogna”, l’asparago pungente, portano a spalla a seguito di un voto. Le croci, di diverso colore e con diverse simbologie, dipinte o scolpite all’incrocio dei bracci, sono identificative non solo della confraternita di appartenenza ma a queste ne seguono delle altre che afferiscono a pie aggregazioni devozionali e laicali ascritte all’uno o all’altro sodalizio, come ad esempio la croce “gialla di S. Giuseppe” dell’Immacolata, un tempo portata a spalla dai falegnami e dagli ebanisti. Fino agli inizi del ‘900 l’Arciconfraternita del SS. Rosario apriva le processioni di penitenza tre ore dopo il mezzogiorno di Giovedì Santo portando in processione i simulacri della Passione di Cristo; l’Arciconfraternita dei SS. Giovanni Battista ed Evangelista usciva, dalla propria chiesa, alle dieci del Venerdì Santo; l’Arciconfraternita di Maria SS. Immacolata, appena deposto il SS. Sacramento nel “sepolcro”, svolgeva, il giovedì Santo, una piccola processione di penitenza tra la piazza della chiesa e la piazza Mercanti, successivamente nelle ore pomeridiane del Venerdì Santo, percorreva tutta la città; la confraternita di Maria SS. del Carmine svolgeva la processione di penitenza all’alba del Venerdì Santo per le vie della città ed era l’unica ad arrivare fino alla balconata di Bellavista. Oggi questi antichi rituali, semplificati nel cerimoniale, rimangono nel passo cadenzato, nel suono cupo dei tamburi, nello squillare della tromba, nell fruscio dei sacchi e delle mozzette dei “fratelli” dei quattro sodalizi confraternali che, tutti insieme, si mischiano alle litanie e allo sciorinare di ave marie e pater noster di vecchi, giovani, devoti e curiosi i quali, nei giorni del triduo della settimana santa, continuano ad affollare le vie del centro storico, all’interno del quale riti popolari e liturgia sposano, da centinaia di anni, gestualità, ritualità e devozioni popolari di ispanica memoria».
Nel corso degli anni si è scelto di "attenuare" o in alcuni casi di eliminare alcune delle parti più crude della rappresentazione religiosa. Come giudica questa scelta?
«La scelta di epurare e liberare da sovrastrutture “sceniche” e “teatrali” che niente avevano a che fare con la tradizione secolare della Naca è stata una scelta coraggiosa e, per certi versi, necessaria. Si sentiva la necessità di riportare il rito laico della Naca al vero senso penitenziale aderente alla più pura tradizione della religiosità popolare. Un senso, questo, che affonda le radici, come già detto, negli anni della controriforma e che troverà, soprattutto all’indomani di epidemie e calamità naturali - in particolar modo terremoti e siccità - un’ascesa verso forme penitenziali complesse esplicitate, soprattutto tra ‘600 e oltre la metà del ‘700, in processioni e ritualità penitenziali che vedono in città anche la presenza di “battenti”, pronti ad “effondere il proprio sangue” sia in relazione a quanto detto e sia, nello specifico, durante i riti del venerdì santo. Tuttavia, anche queste forme, nei secoli, furono ridimensionate e a volte anche vietate dagli stessi vescovi».
E oggi? Come si caratterizza la rappresentazione?
«Oggi la Naca riprende, sebbene rivista nelle forme e nei contenuti, la sua veste laica ed in unione alla Chiesa locale, risponde attraverso il rito del Venerdì Santo, al bisogno di aggregazione e di testimonianza pubblica e collettiva della fede, e attraverso il lento percorrere le strade del centro storico di Catanzaro, allude al senso della storia umana, che è un camminare verso Dio, ricordando che la dimora terrena non è stabile ma transitoria. Ecco, quindi, come la città, nello scorrere di confraternite, simulacri, bande, fedeli e clero, si rigenera, per un giorno, quale “spazio” della conservazione della fede, della devozione e della pietà popolare. Assistere e partecipare, oggi, all’incedere penitenziale delle quattro arciconfraternite cittadine, che precedono le vare del Cristo morto e della Vergine Addolorata, vuol dire tramandare quel “cattolicesimo popolare”, quelle espressioni cultuali avite di carattere e valenza religiosa e sociale importanti che, attraverso il rapporto tra “uomo”, “cose, “luoghi” e “Dio”, “costituisce un’espressione della fede che si avvale di elementi culturali di un determinato ambiente, interpretando ed interpellando la sensibilità dei partecipanti in modo vivace ed efficace. La religiosità popolare, che si esprime in forme diversificate e diffuse, quando è genuina, ha come sorgente la fede e deve essere, pertanto apprezzata e favorita. Essa nelle sue manifestazioni più autentiche, non si contrappone alla centralità della Sacra Liturgia, ma, favorendo la fede del popolo che la considera una sua connaturale espressione religiosa, predispone alla celebrazione dei sacri misteri” (Giovanni Paolo II)».
Ci sono aspetti della storia della Naca che inevitabilmente si legano anche alla tradizione culinaria della città. Il venerdì santo i catanzaresi consumano il loro piatto tradizionale, u Morzeddhu, chiaramente nella variante di baccalà. Ci spiega da dove nasce questa consuetudine?
«La tradizione culinaria catanzarese legata alla Quaresima e alla Santa Pasqua trova assonanze con quella calabrese: basti pensare alle cuzzùpe e alle nepitelle, che, tradizionalmente, potevano essere consumate soltanto dopo lo “sparo” della “gloria” a mezzogiorno del Sabato Santo, per la presenza nell’impasto, quale grasso di origine animale, della sugna o dello strutto. Fanno eccezione, tuttavia, due piatti tipici catanzaresi quali la Tìana di agnello e l’ormai celebre e prelibato morzello di Baccalà. Quest’ultimo è il sostituto del tradizionale morzello, succulento inno catanzarese al quinto quarto, in quanto strettamente legato alla processione della Naca. Le diverse confraternite cittadine che, come specificato anticipatamente, fino al 1937 allestivano, tra il giovedì e il venerdì santo, ognuna la propria Naca, si preoccupavano di assicurare anche il “vitto”, insieme a qualche bicchiere di vino, ai portatori delle vare del Cristo morto e della Vergine Addolorata quale “compenso” dell’“atto di pietà” che avrebbero dovuto sostenere. Trattandosi di “giorni di magro” i bettolieri, per osservare il precetto di astinenza dalle carni, sostituirono la trippa e le frattaglie con il baccalà dando così origine ad una nuova cultura culinaria identitaria della città. Piccola nota di colore. Il morzello di baccalà veniva, spesso e volentieri, annaffiato da più di un bicchiere di vino e questo, di frequente, era “smaltito” durante il percorso processionale attraverso “vivaci” costumi che, il più delle volte, sfociavano in litigi, disturbi e disordini, e quando qualcuna delle confraternite, nella malaugurata delle ipotesi, non rispettava il proprio percorso o non concedeva la dovuta precedenza all’una o all’altra Naca la soluzione “diplomatica” era semplice: si posavano nache e madonne e, dando seguito a tutti gli odi e rancori aviti da secoli repressi e codificati da rescritti reali e provvedimenti vescovili, ci si scioglieva in “fraterne” e “sincere” scazzottate».