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16/10/2025 ore 11.45
Attualità

La riva bianca e la riva nera, Gaza e il confine labile tra amico e nemico nei volti annientati dalla guerra

Ogni immagine che ci raggiunge dalle guerre nelle varie parti del mondo è una ferita che si incide negli occhi. In questo contesto, la canzone scritta da Armando Testa-Emilio Sciorilli e cantata da Iva Zanicchi, ci ricorda che il conflitto non è inevitabile, che la frontiera è solo un’invenzione e nell’altro dovremmo scorgere non il nemico ma il nostro stesso volto

di Ernesto Mastroianni

La guerra tra Israele e Palestina è tornata a scuotere il mondo con la sua ferocia. Per molti mesi le cronache si sono susseguite con la stessa cadenza implacabile: bombardamenti, rappresaglie, città ridotte in macerie, colonne di profughi senza terra, bambini che non hanno più volto né futuro.

I giornali ci mostrano immagini di devasto, confrontandole a quelle di pochi anni fa, quei mondi, ci appaiono assolutamente distanti.

La guerra è uno scenario che sembra eterno: Russia e Ucraina, Israele e Palestina, Africa, Myanman, un dramma che muta nei protagonisti ma resta uguale nella sostanza. Conflitti senza fine, che divorano la vita e annientano la speranza.

Ogni immagine che ci raggiunge dalle guerre nelle varie parti del mondo, dalla distruzione di Gaza o dai kibbutz del Sud d’Israele, è una ferita che si incide negli occhi, eppure – proprio nel suo ripetersi ossessivo – ci pare quasi normalizzata, come se la guerra fosse ormai divenuta una condizione naturale.

Eppure non lo è. La guerra resta lo scandalo più atroce, la negazione dell’umano. E a ricordarcelo, sorprendentemente, è una vecchia canzone appartenente al canone musica d'autore italiana: "La riva bianca, la riva nera", scritta da Armando Testa e Emilio Sciorilli, portata alla ribalta da Iva Zanicchi nel 1971. In quei versi si nasconde un nucleo universale che oggi, davanti all’attualità più tragica, acquista una forza profetica.

Il brano si apre con una scena di trincea: «Signor capitano, si fermi qui / Sono tanto stanco, mi fermo, sì / Attento, sparano, si butti giù / Sto attento ma riparati anche tu».

Non è difficile immaginare questi soldati come due giovani mandati a combattere senza scelta, simili a quelli che oggi, in Medio Oriente, si fronteggiano senza sapere bene perché. La stanchezza e la paura sono le stesse di ogni tempo, la precarietà della vita è identica sotto ogni cielo.

La canzone della Zanicchi ci regala uno stralcio di lucidissima umanità tra i due soldati. Appaiono nemici con le armi, ma hanno un'anima. Sono cristiani, nel senso più ampio del termine. Sono fatti di carne, di ossa, di sangue, e soprattutto di cuore!

E poi, ecco il fulcro della canzone: «Però sul fiume passa la frontiera / La riva bianca, la riva nera / E sopra il ponte vedo una bandiera / Ma non è quella che c’è dentro il mio cuor».

È l’immagine della divisione. Due rive che in realtà appartengono allo stesso fiume, due popoli che condividono la stessa terra, ma che una frontiera trasforma in nemici. Non occorre grande sforzo per sovrapporre queste parole alla mappa di Israele e Palestina: villaggi separati da un muro, città che si guardano da opposte sponde, comunità che vivono sotto bandiere diverse, pur respirando la stessa aria e nutrendosi della stessa acqua.

Tolstoj, nella sua celebre opera "Guerra e pace", definì la guerra «una crudeltà senza senso, un crimine contro l’umanità». Eppure proprio questa crudeltà diventa la regola, il destino che piega la volontà dei singoli. Così il soldato della canzone, quando scopre che l’altro non è dei suoi, dice soltanto: «Ho un’altra divisa, lo sa anche lei». Non c’è odio, non c’è accanimento: solo la rassegnazione di chi si trova prigioniero di un meccanismo più grande di lui. Pare che l'anima si faccia viva e da astratta ci regali una lucida concretezza: la guerra è qualcosa di innaturale, sovrasta tutto e tutti, anche l'umanità intera.

E poi, la canzone prosegue con la tragedia:

«No, non lo so perché non vedo più / Mi han colpito, e forse sei stato tu».

L’assurdo della guerra sta tutto qui: non sapere nemmeno chi ci ha colpito, non distinguere più l’amico dal nemico. La pallottola non chiede la carta d’identità, non distingue la riva bianca dalla riva nera: cade sull’uomo. Punto e basta. Così avviene oggi nelle città bombardate, dove un missile piomba sulla casa di un bambino palestinese o su un autobus israeliano senza fare differenza, se non quella di alimentare altra rabbia, altro dolore.

Remarque, in "Niente di nuovo sul fronte occidentale", scrisse: «La guerra ci ha presi come una corrente e ci trascina, e dove andiamo non lo sappiamo più. Siamo diventati macchine, non uomini». Questo diventare macchine è ciò che la canzone della Zanicchi ci restituisce con semplicità disarmante: due giovani che parlano da uomini, che si riconoscono simili, e che pure sono costretti a vedersi come nemici per via della divisa.

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Intorno a loro, il paesaggio si trasforma:

«Sulla collina canta la mitraglia / E l’erba verde diventa paglia / E lungo il fiume continua la battaglia / Ma per noi due è già finita ormai».

È l’immagine della natura violata, della terra che da fertile diventa sterile. E poi, la fine! È arrivata la fine per entrambi i soldati.

Oggi, osservando i campi devastati dalle bombe o le macerie di Gaza, quei versi sembrano cronaca più che poesia. Albert Camus scrisse che «uccidere un uomo significa uccidere un po’ se stessi»: ma la guerra uccide non soltanto l’uomo, uccide anche la terra, cancella la possibilità di vita che essa custodisce.

Il finale della canzone è forse il più straziante:

«Tutto è finito, tace la frontiera / La riva bianca, la riva nera / Mentre una donna piange nella sera / E chiama un nome che mai risponderà».

La guerra tace, ma non perché sia stata vinta la pace: tace perché sono morti i suoi protagonisti, perché la vita è stata spezzata. È il silenzio dei campi pieni di cadaveri, il silenzio dei nomi che non rispondono più. Una donna piange nella sera, e il suo pianto potrebbe essere quello di una madre palestinese che stringe al petto un figlio ucciso sotto le macerie, o quello di una madre che veglia sul corpo del figlio caduto in battaglia. Il dolore non ha bandiera, il pianto non conosce confini.

Papa Benedetto XV, davanti all’immane carneficina della Prima guerra mondiale, gridò al mondo: «Una inutile strage». Quelle parole valgono ancora, e sembrano scolpite proprio nel finale della canzone: la frontiera è muta, le due rive sono tacite, ma non c’è riconciliazione, soltanto assenza, vuoto, dolore, sofferenza, lutto.

Eppure, nel profondo delle coscienze umane, irrimediabilmente devastate dalla guerra, emerge anche una verità che resiste, un seme di speranza. Infondo: la stessa pioggia bagna i campi, lo stesso sole scalda i cuori. È la voce ostinata dell’umano che non si lascia spegnere, che ci ricorda come ciò che unisce sia sempre più grande di ciò che divide. Israele e Palestina, divise da muri e da armi, restano pur sempre due rive dello stesso fiume (metaforizzandole). Restano due comunità che hanno in comune il sole, la pioggia...

La riva bianca, la riva nera è allora più di una canzone: è una parabola sul destino dell’uomo, un monito che ci arriva da lontano e che oggi suona attualissimo. Ci dice che la guerra non è inevitabile, che la frontiera è solo un’invenzione, che nell’altro dovremmo scorgere non il nemico ma il nostro stesso volto. Solo così, forse, il fiume tornerà a essere un ponte e non una ferita.