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29/09/2025 ore 12.39
Attualità

Le lacrime di Simone Anzani: «Ho rischiato di smettere, ma oggi sono tornato per amore del volley e della mia famiglia»

Il centrale azzurro si commuove dopo la vittoria del Mondiale: due anni fa un problema cardiaco lo aveva quasi costretto a lasciare per sempre la pallavolo

di Luca Arnaù

Ci sono vittorie che contano per una carriera, e altre che valgono una vita. Quella di Simone Anzani ai Mondiali di volley appartiene alla seconda categoria: un trionfo che non si misura in punti o in set, ma nel respiro ritrovato di un uomo che aveva visto il buio.

Sul parquet, dopo la sirena finale, il centrale della Nazionale è rimasto immobile, le mani sul volto, mentre le lacrime scendevano copiose. Non erano solo lacrime di gioia, ma di sollievo, di liberazione, di gratitudine. «Questa partita è speciale per me, qualcosa di incredibile… dopo due anni difficili in cui ho rischiato di dover smettere di giocare», ha detto ai microfoni di Rai2, con la voce che tremava come le gambe dopo una maratona.

Due anni fa, una diagnosi improvvisa: un’anomalia cardiaca. Per un atleta, il cuore è il motore e il simbolo. E scoprire che quel motore non batte come dovrebbe è come sentirsi svuotare dall’interno. Anzani, 33 anni, allora campione d’Europa con l’Italia, si è ritrovato di colpo su un campo diverso: quello della paura, delle notti insonni, delle attese in corsia.
Due interventi, mille esami, la sensazione di aver perso il filo del sogno. E poi, lentamente, il ritorno. «Ci sono stati momenti in cui ho pensato che fosse finita. Guardavo la rete e non sapevo se l’avrei più superata», ha confidato tempo fa.

Ma chi conosce Simone sa che dietro quell’aria tranquilla e riservata si nasconde una tenacia feroce. Giorno dopo giorno, con la discrezione di chi non ama i riflettori ma li conquista col lavoro, ha ricominciato. Pesi, fisioterapia, allenamenti leggeri, poi più intensi. Ogni battito era un passo. Ogni allenamento, un segno di vita.

E quando la maglia azzurra lo ha richiamato, non ha esitato. È tornato, nonostante il timore, con la stessa fame di sempre. Solo che questa volta non era fame di vittoria, ma di vita.

Dopo il fischio finale, con i compagni che lo abbracciavano, Anzani ha guardato verso la tribuna dove c’era la sua famiglia: «Ho rincorso un’Olimpiade che rappresentava il mio ultimo grande sogno e oggi sono qui grazie al sostegno di mia moglie, delle mie bambine, dei miei genitori, di mia sorella e dei miei amici. Questo è per voi, per l’amore e per la pazienza».

Le sue parole hanno attraversato la sala stampa come un’onda. Perché in fondo raccontano una verità semplice e universale: che lo sport, quando è autentico, non è mai solo una gara, ma un modo di rialzarsi.

Nel volto rigato dalle lacrime, Anzani portava i segni di chi ha imparato a convivere con la fragilità e a trasformarla in forza. La stessa forza che lo ha fatto tornare a murare, saltare, urlare. E a vincere.

A chi gli chiedeva come si sentisse, ha risposto solo: «Stanco, ma felice». È la risposta di chi ha camminato sull’orlo e ha trovato un appiglio.
La sua storia ricorda che non sempre i campioni sono quelli che segnano di più, ma quelli che non si arrendono mai, anche quando il corpo sembra tradire e la vita impone di fermarsi.

Sul podio, mentre risuonava l’inno, Anzani non guardava le telecamere. Guardava il cielo. Forse pensando a quel battito che aveva rischiato di perderlo, e che ora gli restituiva tutto: il campo, la squadra, i sogni, la vita.

E in quel momento, tra applausi e flash, non c’era un atleta che festeggiava un titolo. C’era un uomo che ringraziava il destino per avergli concesso di giocare ancora una volta. Perché, a volte, il vero trofeo è semplicemente poterci essere.