L’emorragia silenziosa dei borghi arbëreshë: così la Calabria rischia di perdere secoli di cultura e tradizioni
Le antiche comunità italo-albanesi cosentine, custodi di una lingua unica e del rito greco-bizantino, vivono una crisi allarmante. Senza una strategia di rilancio, il rischio oblio è altissimo
Le comunità arbëreshë (italo-albanesi) della provincia di Cosenza rappresentano una delle zone etno-linguistiche più affascinanti e antiche d'Italia, testimoni di migrazioni avvenute tra il XV e il XVIII secolo dall'Albania. Questi borghi, incastonati tra le colline e le montagne dell'entroterra cosentino, sono custodi di una lingua, l’arbëresh, di riti religiosi greco-bizantini e di tradizioni che hanno resistito per oltre cinque secoli. Oggi purtroppo, la loro stessa esistenza è minacciata da un fenomeno inarrestabile e doloroso, lo spopolamento, alimentato in gran parte dall'emigrazione giovanile che preferisce affrontare il rischio della “terra promessa” quasi imitando i vecchi emigranti con l’unica certezza di una valigia, non più di cartone ma pur sempre piena di insidie e insicurezze.
Nel recente passato abbiamo dedicato attenzione proprio ai centri di origine albanese con servizi giornalistici dedicati, testuali e video, inseriti in ArberiaNews, cercando di valorizzare e sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di queste comunità che “sopravvivono” al tempo. Ma girando, i nostri sguardi spesso, se non solo, si sono confrontati con altri che di giovane avevano solo lo spirito, il “fuggifuggi” giovanile lo abbiamo toccato con mano.
Sebbene la crisi demografica nei paesi arbëreshë non sia un evento recente ma esponenzialmente cresciuto nell’ultimo mezzo secolo, oggi ha assunto proporzioni allarmanti. L'analisi dei dati forniti da studi specifici evidenzia un declino generalizzato e profondo con numerosi comuni che hanno perso oltre la metà dei loro residenti rispetto al dopoguerra. Le ragioni della fuga sono conosciute, fattore comune anche in altre differenti realtà della regione. La crisi del lavoro e la "fuga dei cervelli" è il fattore trainante nutrito dall'assenza cronica di un tessuto economico diversificato. I giovani, in particolare quelli con un'istruzione elevata, non trovano sbocchi professionali adeguati sul territorio.
L'economia locale, storicamente legata all'agricoltura e a un artigianato in declino, non offre alternative alla migrazione forzata verso i centri urbani più grandi, il Nord Italia o l'Europa, in cerca di opportunità e di un futuro stabile. Ma altri deterrenti per rimanere stanziali potrebbero essere identificati nell’isolamento e nell’inaccessibilità dei servizi essenziali. Molti borghi arbëreshë sono classificati come aree interne, caratterizzate da una grave carenza infrastrutturale.
Strade vecchie e inefficienti e trasporti pubblici scarsi rendono difficile la vita quotidiana e l'accesso ai servizi. La progressiva chiusura di scuole (per mancanza di alunni) e la riduzione di presidi sanitari trasformano la residenza in questi luoghi in una scelta sempre più scomoda e insostenibile, soprattutto per le giovani famiglie. Ecco, dunque, che avanza l’invecchiamento provocando una bassa natalità. L'emigrazione dei giovani amplifica il declino demografico naturale. La popolazione rimanente è sempre più anziana, riducendo ulteriormente la possibilità di nuove nascite e creando un circolo vizioso che condanna i comuni alla contrazione. La partenza dei giovani innesca una serie di reazioni a catena che minano le fondamenta economiche, sociali e, soprattutto, culturali dei paesi. Il rischio di oblio culturale e linguistico è alto. Questa è la conseguenza più grave e irreversibile, la cultura arbëreshë è una cultura orale, la cui sopravvivenza dipende dalla trasmissione intergenerazionale della lingua e dei riti.
Fortemente preoccupante la scomparsa della lingua, senza i giovani a parlarla nella quotidianità, in piazza, a scuola, in famiglia, la lingua arbëresh rischia di trasformarsi in una "lingua del ricordo", confinata ai soli anziani e alle celebrazioni ufficiali. Il progressivo venir meno dell'isolamento che l'aveva protetta per secoli, unito all'emigrazione, ha esposto le nuove generazioni a una maggiore assimilazione linguistica e culturale all'italiano dominante. Ma non solo, le “assenze forzate” dei giovani propone anche la dissoluzione delle tradizioni. I riti greco-bizantini, le danze (vallje) e i canti tradizionali richiedono la partecipazione attiva e l'apprendimento da parte delle nuove generazioni.
L'assenza di giovani rende difficile o impossibile organizzare e perpetuare queste manifestazioni, che sono la spina dorsale dell'identità comunitaria. E sinora abbiamo analizzato gli aspetti concreti ed astratti ma restano ancora altre forme materiali di pericolosa conseguenza come il dissesto socio-economico e ambientale. Impossibile non pensare al conseguente degrado urbano e, di conseguenza, al rischio idrogeologico.
Le abitazioni abbandonate nei centri storici vanno in rovina, creando problemi di sicurezza e degrado urbano. A un livello più ampio, l'abbandono delle aree rurali e montane, un tempo curate dagli agricoltori, aumenta il rischio di dissesto idrogeologico e di perdita della biodiversità agricola. Diminuendo gli abitanti, la conseguenza triste sarà il collasso dei servizi e del commercio.
Con l'invecchiamento e la diminuzione della popolazione, chiudono negozi, farmacie e botteghe artigiane. I paesi perdono la loro autonomia economica e diventano "paesi dormitorio" o, peggio, "paesi fantasma", dove l'unico servizio di fatto è il cimitero. Insomma, una mancanza di “sostituzione” e mancanza di innovazione, l'emorragia giovanile priva i comuni della loro risorsa più dinamica, quella cioè per la capacità di innovare. L'assenza di una classe dirigente giovane e proattiva ostacola l'accesso a fondi europei, l'implementazione di progetti di rilancio e lo sviluppo di nuove forme di turismo sostenibile e digitale. cultura, memoria e un forte senso di appartenenza che può e deve essere capitalizzato.
Ecco dunque la sfida, la giusta opposizione allo stato di fatto attuale. Serve pensare al rilancio culturale come motore economico. È fondamentale trasformare l'unicità culturale (lingua, riti, storia) in un'opportunità economica. Promuovere circuiti di turismo esperienziale basati sull'identità, come festival culturali, percorsi enogastronomici autentici e musei diffusi che coinvolgano attivamente gli abitanti, non più come osservatori “del posto” ma come soggetti attivi.
Quelle case vuote di cui parlavamo poco prima che pian piano desertificano un paese devono essere contrastate incentivando il ripopolamento attraverso agevolazioni fiscali per chi avvia nuove attività o acquista e ristruttura immobili (il fenomeno della vendita di case a un euro è un tentativo, sebbene non sempre sufficiente). Attirare nuove forme di residenza, come il lavoro da remoto e il cohousing, sfruttando la bellezza dei luoghi e, laddove possibile, migliorando la connettività digitale. E perché no, fare rete e sinergie territoriali per offrire servizi e infrastrutture.
La sopravvivenza passa per la creazione di reti intercomunali più forti. Mettere in comune servizi (scuola, sanità, sportelli amministrativi) tra i comuni limitrofi (arbëreshë e non) può garantire una maggiore efficienza e la permanenza di presidi essenziali sul territorio, superando la logica del piccolo comune isolato. In sintesi, per fermare l'emorragia silenziosa e salvare la minoranza arbëreshë, a nostro umile giudizio, serve una visione strategica lungimirante che coniughi la tutela culturale con un'azione di sviluppo economico e il miglioramento dei servizi, facendo della loro unicità la vera chiave della loro resilienza futura.