Giancarlo Dotto in libreria con “Il paradiso esiste... ma quanta fatica”: la biografia dell’ex Ct della Nazionale italiana Luciano Spalletti
Esce per Rizzoli il libro scritto a quattro mani con il tecnico toscano. «Nella sua storia difficile di allenatore, la chiamata della Nazionale è davvero il premio catartico. Il riconoscimento che spazza via tutte le afflizioni del passato»
"Il paradiso esiste... ma quanta fatica”, ovvero l’affresco umano di uno degli allenatori italiani più ecclettici del calcio moderno. Una carrellata di emozioni, di ricordi e confessioni: dai dubbi di un uomo di calcio, attratto dai lustrini del “mondano”, alle certezze dell’uomo felice solo quando s’intrattiene con i suoi animali. Passando ancora per uno scudetto che a Napoli si aspettava da 33 anni. Fino al ruolo di C.T. della Nazionale, un’esperienza che nasce e si conclude come un breve ma intenso amore.
Giancarlo Dotto, una biografia è per sua natura contenitore esplicito di esperienze. In passato hai scritto quelle di: Carmelo Bene, Maurizio Costanzo, Ornella Vanoni e adesso con Luciano Spalletti. Qual è stata quella più gratificante da raccontare?
Nessun dubbio. Quella di Carmelo Bene. Per due essenziali ragioni. Un privilegio condividere due mesi nella sua magnifica casa di Otranto affacciata sul canale con un uomo geniale e ispirato. Ascoltare per tante ore la sua voce “privata”, così diversa da quella pubblica, e così bella, forse anche più bella, con le sue sporcature, i suoi balbettii e farfugliamenti. Tutto questo in un regime di complicità assoluta, che si parlasse di Von Masoch o di Pinocchio, del depensamento femminile o della foné. Complicità che è diventata intimità. L’esperienza più formativa della mia vita e, alla fine, un volume che, non io ma tutti quelli che lo leggono, definiscono monumentale.
Con Maurizio Costanzo abbiamo fatto un ottimo lavoro. Assoluta e sorprendente la sua disponibilità. Un uomo gentile e generoso. La prima biografia (“Chi mi credo di essere”) è stata un successo commerciale importante. Tale che l’editore ha voluto replicare (“Che sarà mai”).
Ornella Vanoni. Donna fantastica, in tutte el accezioni possibili. Umorale come poche. Se con Spalletti è stato come ballare il tango allacciati a un cactus pieno di spine, con lei è stato come cavalcare un rinoceronte schizzato, ma capace anche lui, lei, di tenerezze inaudite.
Tu dici appunto a Luciano Spalletti: “Scrivere un libro con te, su di te, sarà come ballare un tango allacciati ad una pianta di Cactus” E’ stato veramente così o le spine col tempo si sono rivelate meno acuminate?
Si sono rivelate, casomai, più acuminate. Spalletti è un uomo torturato che, torturando se stesso, finisce per torturare gli altri. Non ha mai fatto pace con se stesso e, magari, ci riuscirà con i languori della senilità, e non ha mai fatto pace con l’essersi lasciato convincere a fare questo libro. Diciamo che non mi ha mai perdonato d’averlo spinto a farlo. Lui dice d’averlo fatto per me, come atto di gratitudine per l’essere stato l’unico a Roma a difenderlo pubblicamente nella barbarie della sua tenzone con Totti, dove lui era il vitello sacrificale, sottoposto a un autentico linciaggio. Concetto, naturalmente, che non apprezzo. Una volta che decidi di fare una cosa devi assumertela, in tutti i sensi possibili, difenderla, in tutti i modi possibili.
Cos’è il Montaione per Spalletti?
Ci sono due Spalletti, come racconto nelle mie finestre sul libro. Quello attratto dai lustrini del “mondano”, dal “fascino” inesorabile del mondo istituzionale, il contadino, l’uomo dei calli, delle vanghe e delle vacche, l’uomo felice solo quando s’intrattiene con i suoi animali preferiti. Gli unici di cui non diffida, essendo Spalletti il più diffidente degli uomini. Montaione è il suo rifugio dell’anima.
Qualcuno diceva che durante i famosi silenzi di Sciascia, se ascoltavi bene, potevi sentire i meccanismi del suo cervello muoversi. Nel libro i break di Spalletti sono altrettanto eloquenti, cosa hai imparato da quei silenzi?
I suoi silenzi sono proverbiali anche tra i suoi amici più intimi. Stai al telefono con lui e, all’improvviso, calano silenzi insopportabili, indecifrabili. Nessuno sopporta il silenzio. Lui ti infligge silenzi apocalittici. Immagino che si tratti per lui di rimuginare la minima parola, il minimo concetto. Non c’è nulla che lui non prenda terribilmente sul serio. È la sua grandezza ma anche il suo limite.
Lo definisci il rappresentante perfetto di un mondo arcaico e dici con cognizione che, al contrario, la modernità che sfoggia da allenatore è prodigiosa. I contrasti di Spalletti si fermano qui o ci puoi raccontare altro?
Da allenatore lui ha sempre vissuto un incomprensibile ma comprensibile (se pensi alla sua testa) complesso d’inferiorità. Ogni volta che un club lo chiama la sua condizione di partenza è guardarsi allo specchio e dirsi: non ce la posso fare, non sono all’altezza. Da questa “certezza” della sua inadeguatezza nasce lo Spalletti grande allenatore. Luciano è un uomo ossessivo, lo raccontano i suoi leggendari quaderni, migliaia di pagine scritte a mano, dove raccoglie le sue riflessioni e le sue esperienze. Spalletti ha studiato calcio come pochi al mondo. È stato il suo modo per autorizzarsi a meritare di finire nel paradiso del pallone e non restare in un emporio di serie b. Spalletti ha sempre fatto bene e benissimo quasi in tutte le piazze, ma si è sentito veramente e finalmente “autorizzato” solo dopo lo scudetto vinto con il Napoli.
I leader. Un allenatore se ne nutre avendoli in squadra, ma possono diventare i granelli di sabbia che bloccano gli ingranaggi di una macchina perfetta. Roma (due volte), Totti e la sua gestione. Del racconto di quel periodo cosa ti ha sorpreso?
Come quando si ama una donna e si dubita. Non del proprio amore, ma del suo. Si diventa morbosi, ossessivi, insicuri. Si tende a sbagliare tutto. Spalletti ha sempre amato i suoi leader, Totti su tutti. Amato nel senso letterale del termine, quando si parla di slancio sentimentale, quasi in modo femmineo. Spalletti è un uomo passionale e caparbio. La passione a volte lo confonde, la caparbietà lo redime e lo spinge in alto. Tutte le volte che si è sentito tradito, ha reagito come un uomo tradito. Mai con la freddezza necessaria. Spalletti non è, tendenzialmente, un uomo strategico. È vittima dei suoi dubbi, delle sue paure, delle sue passioni. È anche la sua bellezza. La sua unicità.
Passiamo a Napoli, noto microcosmo sportivo. Spalletti ti racconta che dopo lo scudetto, nei momenti di relax, continuava ad ascoltare musica napoletana nel suo Buon retiro, quasi come se ci fosse un cordone ombelicale che faticava a recidere. Qual è l’episodio partenopeo che ti è rimasto più impresso?
Certamente la sua decisione, a un certo punto della stagione dello scudetto, di sotterrarsi nel suo eremo di Castel Volturno. Tipico eccesso spallettiano, niente mezze misure: per vincere questo scudetto da qui in poi deve esistere solo il Napoli, solo i miei giocatori. Niente più famiglia, niente più amici, niente che non fosse Napoli e il Napoli.
La telefonata del presidente della FIGC, al Montaione, la vigilia di ferragosto del 2023. Spalletti dopo Napoli è in compagnia della solitudine, e ci sta benissimo, tra i suoi animali e nel posto che più ama. L’amore per la Nazionale sboccia subito…
La chiamata di Gravina arriva quando davvero lui, esausto, ha deciso di darsi una lunga tregua. Nella sua storia difficile di allenatore, la chiamata della Nazionale è davvero il premio catartico. Il riconoscimento che spazza via tutte le afflizioni del passato. Una specie di chiamata alle armi. Non si concede nemmeno la possibilità del dubbio.
La delusione dei Campionati Europei del 2024 e il recente esonero. C’è stato un momento, soprattutto l’anno scorso, in cui ti è parso che Luciano Spalletti volesse cedere? Parlo della guida della Nazionale e naturalmente del progetto libro, che nel frattempo andava avanti.
Dopo il disastro degli Europei, il “modo” in cui è avvenuto, Spalletti era un uomo a terra. Già dubbioso di suo in natura, ha dubitato di tutto, se continuare o dimettersi, se smettere come allenatore e darsi alla sua campagna, ai suoi animali. Di sicuro, il libro era diventato l’ultima delle sue priorità. Poi, come sempre, dallo sprofondo, l’uomo ha reagito, è risalito. Ha prevalso il suo orgoglio luciferino, da uomo e mediano di trincea.
Questo libro, alla luce del tempo che avete passato insieme, è la riuscita costruzione mnemonica di una vita intensa. Dovendo, in conclusione, tratteggiare Luciano Spalletti come fossi un pittore; riusciresti a definirlo in modo dettagliato (diciamo alla maniera dei pittori fiamminghi), o la sua immagine assomiglierebbe metaforicamente più a un quadro astratto di Kandinskij?
Non saprei. M’intendo più di letteratura che di pittura. Azzardo. Spalletti con la sua personalità scomposta, divisa, contraddittoria mi fa pensare a un artista del cubismo, a un Picasso. In letteratura lui è decisamente, potrebbe essere, uno dei tanti personaggi febbrili e maniacali di Dostoevskij, il Raskol'nikov di Delitto e Castigo o l’Ivanovic del Giocatore.