Oggi papa Francesco è morto ma vive ancora la sua rivoluzione nel nome della pace
Il mondo si sveglia orfano di un padre. Ci ha lasciati un uomo che, come pochi nella storia recente, ha cercato di difendere l’umanità dagli artigli della propria autodistruzione
È morto un uomo.
Non un uomo qualunque, ma colui che chiamavano Francesco.
Colui che non si vergognava della sua carne, dei suoi dolori, dei suoi tremori e delle sue sofferenze.
È morto un uomo che, come pochi nella storia recente, ha cercato di difendere l’umanità dagli artigli della propria autodistruzione.
È morto Papa Francesco, il Vescovo di Roma.
Ed è morto in silenzio, alle 7:30 di un’alba umile e disadorna, il giorno dopo Pasqua.
Quando le campane non suonano più, ma resta nell’aria il profumo del pane spezzato.
Nel giorno in cui il sepolcro è già vuoto e il corpo non si trova più.
Nel giorno del movimento, dell’andare, del cercare.
Oggi il mondo si sveglia orfano di un padre.
E non un padre-padrone, ma un padre scalzo, con le mani screpolate dall’ascolto e il cuore aperto come le piaghe del Cristo.
Dicono che Francesco sia tornato alla Casa del Padre.
Ma la sua vera casa era in mezzo ai poveri, agli ultimi, ai diseredati dalla storia.
La sua casa era nel gesto tremante dell’anziano, nel ventre della madre migrante, nello sguardo perso di un bambino affamato.
Io non credo nel Dio della Chiesa, ma anche chi non crede o chi non crede molto può affermare che oggi è morto un santo.
Un santo spoglio, scalzo, inzuppato nel fango della storia, redento dal fango del Vangelo.
La sua santità non stava nell'infallibilità, ma nella fragilità, nella voce tremante, nella schiena curva dai dolori, nella sua ostinata insistenza a parlare di pace mentre i potenti parlavano di missili, di profitti, di muri.
È morto mentre il mondo faceva la conta dei corpi a Gaza, in Ucraina, nelle acque del Mediterraneo.
Ma non è morto ieri.
È morto oggi.
Proprio oggi, il giorno dopo aver lasciato un’ultima parola al mondo.
Non un saluto.
Un testamento.
Nel suo ultimo Urbi et Orbi, un grido sussurrato, letto da un altro perché lui non poteva più, ha messo tutto se stesso.
C’era una luce da crocifisso, una forza da uomo spogliato di ogni potere, che osa parlare ai potenti senza alzare la voce.
Ha parlato di Gaza, dell’Ucraina, dei migranti dimenticati nei centri d’accoglienza e nei fondali muti del mare, delle donne umiliate nel silenzio delle mura domestiche, degli anziani e dei malati da non trattare come scarti.
Ed è questa la cosa più profondamente evangelica, che mi commuove fino alla carne e mi spinge a scrivere come se ogni parola dovesse farsi carne anch’essa, e vivere, e bruciare: il Papa è morto lasciando un messaggio.
E non uno di quei messaggi formali, confezionati, composti per l’archivio della diplomazia ecclesiastica.
No.
Il suo era un grido.
Un grido mite, ma furente.
Un’implorazione ai popoli e ai governanti: Cessate il fuoco.
Cessate il disprezzo.
Cessate la corsa al riarmo.
Siate umani.
“Ogni vita è preziosa!”
Così ha detto.
Così ha lasciato scritto.
E nel dire questo ha fatto tremare ancora una volta i palazzi del potere.
Non con l’ira.
Ma con la coerenza.
Quella virtù che i potenti temono, perché non si compra, non si trucca, non si cancella.
Ecco, la coerenza.
Quella parola che nel nostro mondo post-ideologico suona quasi oscena.
Francesco è stato coerente.
Con il povero di Assisi, con il Vangelo delle Beatitudini, con i migranti che abbracciava a Lampedusa, con le donne che chiedevano ascolto, con i bambini, con i “popoli in fuga”.
Non ha governato la Chiesa come un sovrano, ma l’ha abitata.
Nel suo ultimo messaggio ha parlato di pace, mentre il mondo lucidava le armi.
Ha chiesto il disarmo, mentre le industrie brindavano ai profitti.
Ha abbracciato ancora una volta chi veniva da lontano, mentre si alzavano muri e sospetti.
Ha detto: “Cessate il fuoco”.
Ma il mondo aveva le orecchie piene d’odio per poter ascoltare.
Eppure non ha taciuto.
Fino all'ultimo respiro, ha detto.
Fino all’ultimo istante è stato tra la gente.
Ieri, nonostante la fatica, ha voluto salire sulla papamobile.
Non per mostrarsi.
Ma per esserci.
Per farsi trovare, ancora una volta.
Come il Cristo risorto nel giardino del dolore.
Non appare ai dotti e ai potenti, ma a Maria di Magdala, a chi piange e cerca.
Salutava i bambini.
Sorrideva piano.
Forse sapeva che stava finendo.
Ma voleva dire, senza parole: «Non abbiate paura. Io vado. Ma il Vangelo resta. Il Signore è vivo. E lo è in voi, se saprete cercarlo nei poveri, nei volti degli ultimi, nei gesti d’amore».
E ora che se ne va, non ci lascia una Chiesa trionfante, ma una Chiesa fragile e ferita.
Ma viva, sincera, in cammino.
Una Chiesa che piange, ma non mente.
Che cade, ma si rialza.
Una Chiesa vera, in cammino, piena di lacerazioni, ma senza più le maschere.
E questa è la sua ultima omelia.
«La Pasqua ci spinge a muoverci», ha detto.
«A cercare il Risorto là dove la vita geme».
È una frase semplice, eppure è una condanna: a chi fa delle religioni strumenti di guerra, a chi fa della fede un pretesto per l’odio.
E insieme è una liberazione: se Dio è nella storia, allora ogni storia può essere redenta.
Francesco ha ridato senso al sacro.
Ha fatto sì che anche chi non crede potesse inginocchiarsi.
Non davanti a un dogma, ma davanti a un uomo che ha saputo restare umano, mentre intorno tutto diventava disumano.
Un uomo che ha usato il potere per svuotarlo.
Che ha ricordato al mondo che «nessuna pace è possibile senza un vero disarmo».
E che ci ha chiesto di «avere fiducia anche in chi viene da terre lontane».
Ora che la sua voce si è spenta, sentiamo ancora più forte il rumore di quelle parole che restano.
Sono parole incise nella carne del tempo.
Parole che nessuna morte potrà spegnere.
Parole che gridano ancora, nel caos di un mondo che si crede eterno e invece trema.
Oggi, Francesco è morto.
Ma non la sua rivoluzione.
Perché la rivoluzione dell’amore non muore.
Non si archivia.
Non si seppellisce.
Noi, ora, dobbiamo metterci in cammino.
Correre, come i discepoli al sepolcro.
Cercare il Risorto nei volti degli ultimi,
nelle pieghe ferite della realtà.
Perché la tomba è vuota.
Ma la speranza è piena.
E la speranza, in questo tempo orfano e oscuro, è la forma più alta della verità.