L’Università della Calabria, una perla nata in una terra complessa. Per noi ragazzi di periferia è stata via di emancipazione
L’Unical è un luogo unico. Chi ci passa, se ne innamora. È una città nella città: biblioteche, mense, teatri, cinema, anfiteatro, verde ovunque. Un campus che ricorda l’Olanda, ma con il cuore caldo della Calabria
Fu un invito gentile, quasi inatteso, quello di Giuseppe Sette. Mi chiese di raccontare, con parole mie, il cammino che mi condusse tra le mura dell’Università della Calabria. Non era impresa semplice. La mia storia, dopotutto, cominciò lontano dalle aule e dai libri, sui campi verdi dove si inseguono sogni rotondi e sudati: quelli del calcio.
A quattordici anni avevo già lasciato la mia Trebisacce per inseguire quel sogno. Viaggiai con una borsa più grande di me e un entusiasmo che sembrava infinito. Gli anni scorsero tra allenamenti e trasferte, tra partite contro nomi altisonanti come Mario Balotelli, Stefano Fiore e Mattia Destro. Ero arrivato alla primavera del Crotone: lì, dove il pallone non è più un gioco ma un banco di prova. In quei giorni, l’università era per me ciò che la fede è per un ateo: un’idea lontana, quasi inconcepibile.
Mi iscrissi quasi per caso. O, meglio, per amore altrui. Mia madre e mia sorella, con la loro dolce ostinazione, decisero che avrei continuato a studiare. Io non avevo alcuna vocazione, né un’idea chiara del mio futuro. Fu mia sorella a scegliere per me Scienze Politiche — una terra di mezzo, un crocevia di saperi. Ma il destino, come spesso accade, aveva già scritto una svolta: un infortunio al tibiale sinistro, in una fredda partita di Coppa Italia Primavera contro il Frosinone. Quel dolore, più dell’impatto, fu la fine di un sogno e l’inizio di un altro. Con la famiglia e la società decisi di fermarmi. Da lì, l’università divenne un sentiero obbligato, quasi imposto.
Il primo anno fu un deserto. Pochi esami, voti modesti, nessuna direzione. Eppure, lentamente, imparai a camminare. Nonostante i pregiudizi, arrivai alla laurea triennale in tre anni e mezzo, discutendo una tesi in diritto amministrativo. Fu la prima svolta vera. Avevo davanti due strade: proseguire gli studi a Roma, come mia sorella e gran parte della mia famiglia, oppure restare. La scelta non fu immediata, ma un libro — L’Alchimista di Paulo Coelho — mi illuminò: “Il tesoro è spesso dietro l’angolo, ma non lo vediamo per mancanza di stupore.” Così decisi di restare. Come Santiago, capii che la mia ricchezza era proprio lì, nel luogo da cui ero partito.
Mi iscrissi a Giurisprudenza. Qualche mese dopo, quasi per gioco, mi candidai al Senato Accademico dell’Università. Sembrava una follia. Poche opportunità di vittoria, poca conoscenza dell’ambiente e poca conoscenza di me stesso. Fino al giorno prima avevo rincorso un pallone, e ora mi trovavo a sfidare i “delfini” dei più votati consiglieri regionali. Ma fu proprio la mia incoscienza la mia forza. Nessuno voleva sfidare quel sistema. E forse neanche io, solo che non lo sapevo.
L’Unical cresce nel ranking di Stanford: 89 docenti tra i migliori scienziati al mondo, 14 in più rispetto al 2024La campagna elettorale durò nove mesi — come una gestazione. Lunga, intensa, piena di incontri che ancora oggi porto con me. In quei mesi, lontano da Trebisacce, l’Università divenne la mia casa. Mia madre affrontò un’operazione delicata, e nonostante tutto, con la forza che solo le madri hanno, mi disse: “Vai a vincere.” Così feci. E quando arrivò il giorno delle elezioni, contro ogni pronostico, arrivai primo con oltre 1500 preferenze. Superai gruppi più strutturati, con mezzi e ramificazioni. Quella fu la vittoria dei “piccoli” sui “grandi”. La vittoria di chi non ha niente, su chi ha tutto. È stata forse la mia vera prima vittoria.
Quella cavalcata non fu solo politica: fu un viaggio umano. Da lì nacquero amicizie, legami, progetti. Con il nostro gruppo contribuimmo a fare proposte per ampliare corsi di studio e numero degli appelli, migliorammo il servizio mense e il numero degli alloggi. Per la prima volta vidi la “balena” universitaria dall’interno: bilanci, regolamenti, dinamiche di potere. E compresi la sua anima, il suo essere.
L’Unical è un luogo unico. Chi ci passa, se ne innamora. È una città nella città: biblioteche, mense, teatri, cinema, anfiteatro, verde ovunque. Un campus che ricorda l’Olanda, ma con il cuore caldo della Calabria. Una perla nata in una terra complessa, che proprio per questo brilla di più. Molti professori che arrivano qui restano incantati. È un’oasi nel deserto, una luce nella notte.
Per noi ragazzi di periferia, è stata ed è una via di emancipazione. Molti studenti sono i primi laureati delle loro famiglie. Io stesso, ad esempio, grazie a questa università, ho avuto l’opportunità di volare oltre oceano, fino alla City University di New York, vivendo nell’Upper East Side e collaborando con gli studi legali più prestigiosi della città. E come me tanti altri: oggi classe dirigente, professionisti, professori.
Per me, l’Unical è stata una madre. Mi ha accolto, formato, accompagnato. Oggi sono il primo della mia famiglia a conseguire un dottorato di ricerca. Insegno, faccio convegni, collaboro con il Senato della Repubblica e la Città del Vaticano ma ogni fine settimana torno qui, grazie a un treno che mi riporta sempre a casa.
Non dirò che l’Università della Calabria sia il nuovo mondo. Dirò, piuttosto, che è un faro acceso su una terra che troppo spesso cammina nel buio. Ha invertito la rotta, creando una classe dirigente colta, libera, consapevole e autorevole.
E così, un pomeriggio di settembre, finita la mia giornata di ricerca, incontro la mia compagna — anche lei affermatasi in Università. Passeggiamo per il campus. Dal ponte dell’Unical guardiamo il Pollino, poi arriviamo all’anfiteatro, dove per caso scopriamo che suona Brunori Sas. Con una birra in mano e il sole ancora caldo, capiamo entrambi la verità più semplice:
il tesoro che cercavamo non era mai stato lontano. Era lì, dietro l’angolo. E noi, per fortuna, non l’abbiamo ignorato.