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24/09/2025 ore 06.47
Attualità

Meloni prometteva meno tasse, ma l’Istat la smentisce: nel 2024 la pressione fiscale al 42,5% e il Pil arranca

Dai dati dell’istituto emerge una fotografia impietosa: pressione fiscale ai massimi dal 2021, Pil fermo sotto l’1%, industria in difficoltà e debito pubblico ancora tra i più alti d’Europa

di Luca Arnaù

Un fisco che non molla la presa e un’economia che fatica a decollare. È questa la fotografia scattata dall’Istat per il 2024, che mette nero su bianco un dato difficile da digerire per Palazzo Chigi: la pressione fiscale è salita al 42,5% del Pil, in aumento rispetto al 41,2% registrato nel 2023. Un punto e tre decimali in più che pesano come macigni sulle tasche degli italiani e che riportano i conti pubblici ai livelli del biennio 2020-2021, quando la pandemia aveva costretto lo Stato a chiedere sacrifici straordinari.

Per capire la portata del dato, basta ricordare che la pressione fiscale rappresenta l’insieme delle imposte dirette e indirette, dei contributi sociali e delle entrate in conto capitale rapportate al Pil. L’aumento certificato dall’Istat nasce da un disallineamento: le entrate fiscali e contributive sono cresciute del 5,8%, mentre il Pil nominale è aumentato solo del 2,7%. Una forbice che ha gonfiato il peso del fisco, smentendo nei fatti le dichiarazioni del governo, che negli ultimi mesi aveva promesso un alleggerimento delle tasse per famiglie e imprese.

Le parole di Giorgia Meloni, che aveva fatto della riduzione fiscale un punto qualificante della sua agenda politica, si scontrano con la realtà dei numeri. Nonostante le rassicurazioni, i contribuenti hanno pagato di più. E la revisione dell’Istat conferma un quadro tutt’altro che confortante: la stima di marzo, che collocava la pressione fiscale al 42,6%, è stata solo leggermente rivista al ribasso, senza intaccare la sostanza del problema.

Sul fronte della crescita economica, le notizie non sono migliori. Il Pil in volume è aumentato dello 0,7%, un tasso tra i più bassi dell’area europea. A sostenere l’economia sono stati soprattutto tre settori: agricoltura, costruzioni e servizi. L’industria, invece, resta in difficoltà, frenata dal caro energia, dall’aumento dei costi di produzione e dalla contrazione della domanda internazionale.

L’Istat segnala che il 2023 si era chiuso con un incremento dell’1% del Pil, con una revisione al rialzo di 0,3 punti percentuali rispetto alle stime di marzo. Un risultato che sembrava incoraggiante, ma che è stato subito smorzato dall’andamento successivo, incapace di replicare la stessa dinamica. La crescita del 2024, di fatto, si è arenata ben al di sotto delle aspettative.

C’è però un dato che il governo rivendica come positivo: il miglioramento dei conti pubblici. L’indebitamento netto delle amministrazioni è sceso al -3,4% del Pil, contro il -7,2% dell’anno precedente. Una correzione importante che consente all’Italia di rispettare, almeno in parte, i parametri europei. Anche il debito pubblico, seppur di poco, è sceso: dal 135,3% previsto a marzo al 134,9%. Numeri che, tuttavia, restano tra i più alti d’Europa e che lasciano margini strettissimi di manovra.

Il quadro generale è quello di un Paese in equilibrio instabile: da una parte il governo può rivendicare un deficit più basso e una gestione più prudente dei conti; dall’altra, il prezzo pagato dai cittadini è un aumento della pressione fiscale che riduce il potere d’acquisto e irrigidisce il clima sociale.

Le famiglie devono fronteggiare bollette e mutui più pesanti, con salari che non tengono il passo dell’inflazione. Le imprese, soprattutto le piccole e medie, denunciano la difficoltà di investire in un contesto di tasse alte e domanda debole. Le associazioni di categoria chiedono al governo un’inversione di rotta immediata, consapevoli che la competitività del sistema produttivo non può reggere a lungo sotto questo peso.

Anche sul piano politico le cifre dell’Istat rischiano di alimentare tensioni. Maurizio Leo, viceministro dell’Economia con delega al fisco, e Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, si trovano di fronte a un dilemma: continuare a sottolineare la stabilità dei conti pubblici o riconoscere che la pressione fiscale resta insostenibile. Entrambi sanno che l’opinione pubblica giudica più dai soldi rimasti in tasca che dalle percentuali del deficit.

In campagna elettorale Giorgia Meloni aveva promesso di abbassare le tasse. I dati dicono che è successo l’opposto. Non è solo una questione contabile: è un problema di credibilità. La pressione fiscale ai livelli del 2020-2021 mostra che il peso dello Stato sull’economia resta elevato e che le politiche di riduzione del prelievo non hanno avuto effetti tangibili.

L’Italia si trova così a convivere con una contraddizione: un’economia che cresce poco, un debito enorme e una pressione fiscale che non scende. La promessa di sollievo per famiglie e imprese resta sospesa, mentre il quadro reale parla di un carico più gravoso. Per il governo, i prossimi mesi saranno decisivi: da un lato la necessità di rispettare i vincoli europei, dall’altro la pressione sociale di chi chiede respiro.

E in questo equilibrio fragile, la certezza è una sola: il fisco pesa oggi più di ieri, e il futuro non promette sconti.