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31/12/2025 ore 14.02
Attualità

Memoria, musica, varietà: Vengo dopo il Tg, su LaC la televisione che ascolta, racconta e unisce generazioni

Un viaggio tra memoria televisiva e presente culturale: il programma di Francesco Occhiuzzi si afferma come uno spazio raro di ascolto, racconto e intrattenimento intelligente in un tempo che ne ha urgente bisogno

di Ernesto Mastroianni

È tempo di consuntivi, di sguardi retrospettivi e di proiezioni future. La fine dell’anno, con la sua naturale inclinazione alla riflessione, invita a interrogarsi su ciò che è stato e su ciò che sarà.

In questo orizzonte di bilanci, Vengo dopo il TG si impone come una delle esperienze televisive più singolari e, al tempo stesso, più necessarie del panorama recente: un varietà colto, garbato, attraversato da una consapevolezza culturale rara, capace di tenere insieme memoria e presente, intrattenimento e pensiero.

Da ottobre a oggi, la trasmissione ideata e condotta da Francesco Occhiuzzi ha costruito, puntata dopo puntata, una sorta di salotto ideale, uno spazio di conversazione alta, in cui la musica, il racconto e l’ascolto si sono intrecciati secondo una grammatica antica, eppure sorprendentemente attuale. Un varietà della parola, del gesto misurato, dell’intelligenza condivisa.

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Ho incontrato Francesco Occhiuzzi in un pomeriggio festivo. Un buon caffè, una battuta pronta – come è nel suo stile, sempre sospeso tra ironia e cultura – e, immancabili, quattro chiacchiere musicali, terreno comune sul quale ci ritroviamo sempre. Da lì, quasi naturalmente, il discorso è scivolato sui mesi appena trascorsi, sulle voci incontrate, sui volti che hanno abitato il palco di Vengo dopo il TG.

«Sai», mi dice Occhiuzzi, «la cosa che mi ha colpito di più è stata la qualità dell’ascolto. Non solo da parte del pubblico, ma anche degli ospiti. Qui nessuno viene per “passare”, vengono per raccontarsi».

Gli chiedo di ripercorrere, con ordine, alcuni degli incontri più significativi.

«Silvia Specchio, per esempio», esordisce. «Con lei abbiamo attraversato due mondi televisivi: "Francamente me ne infischio" e "Novecento". Due trasmissioni che hanno fatto la storia della televisione italiana. E attraverso lei abbiamo raccontato due mostri sacri del piccolo schermo: Adriano Celentano e Pippo Baudo. Due modi diversi di essere televisione, due archetipi. Celentano, l’eresia geniale; Baudo, l’istituzione elegante».

Annuisco. Gli faccio notare come quella conversazione sembrasse più una lezione di storia dello spettacolo che una semplice intervista.

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«È quello che cerco», risponde. «La televisione ha una memoria cortissima. Io provo a restituirle profondità».

Il discorso scivola poi su Patrizia Rossetti. Occhiuzzi ripercorre, in parte, anche la sua carriera televisiva, una carriera quarantennale, con esperienze molteplici.

«Con Patrizia abbiamo ricordato il mio periodo a Rete 4. Anni formativi, anni di gavetta vera. Parlare di quel tempo significa parlare di una televisione artigianale, fatta di studio, di rispetto, di tempi lenti. Patrizia ha questa capacità rara di raccontare senza nostalgia, ma con gratitudine».

Gli chiedo di parlare di Bobo Craxi, che ha avuto in trasmissione qualche settimana fa. Il tono cambia ancora, si fa più curioso.

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«Bobo ci ha regalato una Ornella Vanoni inedita. Non la diva, non l’icona, ma la donna. I suoi silenzi, le sue ironie, le sue fragilità. Le sue ideologie politiche. È stato uno di quei momenti in cui senti che la televisione può ancora essere rivelazione».

Poi Pietro Senaldi, con il suo sguardo lucido sul presente, e subito dopo Memo Remigi, che ha ricordato con noi i sessant’anni della sua celebre Innamorati a Milano. Sessant’anni di una canzone che è diventata paesaggio emotivo. Memo non ha solo raccontato un brano: ha raccontato un’epoca, un modo di sentire, di camminare per le strade con una melodia in testa».

Ricordo perfettamente quella puntata. Glielo dico.

«E poi Roberta Cannata», continua, «e tanti altri. Ogni ospite ha portato un frammento di mondo. Ma se devo scegliere un momento davvero simbolico…».

Si ferma un istante. «Topo Gigio». Sorrido. Era inevitabile.

«L’incontro tra Topo Gigio e Orazio, è stato qualcosa che va oltre la televisione. Era l’infanzia che tornava a guardarci negli occhi. Un cortocircuito emotivo potentissimo. In quel momento ho capito che Vengo dopo il TG stava facendo esattamente ciò che volevo: creare ponti tra generazioni».

E poi il Natale, l'ospitata del presidente Maduli.

«Un momento istituzionale, certo», conclude Occhiuzzi, «ma vissuto con lo stesso spirito: rispetto, dialogo, misura».

Finito il caffè, resta una sensazione nitida: Vengo dopo il TG non è un programma nato per caso. È un progetto pensato, sedimentato, quasi necessario. In un tempo in cui la cronaca quotidiana ci costringe a fare i conti con una realtà spesso dolorosa, Occhiuzzi compie una scelta controcorrente: non rimuovere il peso del mondo, ma alleggerirlo. Restituire alla televisione quella funzione antica di compagnia intelligente, di conforto senza banalizzazione.

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E forse è proprio qui il segreto del suo successo: in quella leggerezza che non è fuga, ma consapevolezza.

«Il nuovo anno sarà ricchissimo», mi confida. «Racconteremo Sanremo, naturalmente, perché Sanremo non è solo un festival: è uno specchio del Paese, una liturgia laica che ogni anno rinnova il suo racconto collettivo. Ma non ci fermeremo lì. Ci saranno nuove voci, nuovi incontri, altre storie da ascoltare e da restituire con rispetto».

Ci salutiamo con una frase di Enzo Biagi, pronunciata da Occhiuzzi con naturalezza: «La televisione riempie molte solitudini».

È forse questo, più di ogni altra cosa, il compito che Francesco Occhiuzzi ha scelto di assolvere: non riempire il tempo, ma abitare i salotti di ogni singolo telespettatore con grazia, misura e intelligenza.