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24/04/2025 ore 06.44
Attualità

Migranti deportati nel silenzio: così il centro di Gjadër in Albania sarà il nostro nuovo confine morale

Non ci sono nomi né volti, solo numeri da spostare. E i soldi: un miliardo di euro spesi non per accogliere, ma per deportare. E quando i nostri figli ci chiederanno «Dov’eravate?», cosa risponderemo?

di Francesco Vilotta

Non ci sono più le parole. Quelle vere. Quelle che si bagnano nel sangue della verità. Quelle che non si pronunciano nei salotti televisivi, né nei corridoi parlamentari, ma si urlano nelle notti sorde, quando un uomo viene trascinato via da una stanza, senza sapere dove andrà, né perché.

Eppure le chiamano “procedure”. Le chiamano “modifiche di funzione”, “decreti legge”. Le maschere del Potere — questo potere che non ha più volto ma solo bocche affamate — si susseguono in un rito osceno che assomiglia più al sadismo amministrativo che a una politica.

Abbiamo costruito dei centri. Li abbiamo costruiti con il cemento del nostro cinismo e li abbiamo lasciati vuoti, deserti, come templi in rovina, mentre fuori la storia bussava alle porte con le mani di un somalo, con gli occhi stanchi di un tunisino, con la voce tremante di una donna eritrea. Non erano ancora abbastanza “utili”, quei centri. Non servivano all’annuncio. Non servivano alla propaganda. E allora — ecco la soluzione — li riempiamo. Come si riempie un sacco, una cisterna, un silos. Ma con esseri umani.

Ora che il grande teatro dell’Europa è distratto dai dazi americani e dalla febbre del riarmo, l’Italia — l’Italia che si professa madre, che si dice cristiana, che ama ricordare Dante — prepara il suo nuovo peccato: la deportazione amministrativa. Non più vagoni piombati, non più stazioni di smistamento, no. Ora le deportazioni partono da porti italiani, viaggiano su navi della Marina, e approdano in centri extraterritoriali mascherati da giustizia.

Nel giro di dieci giorni dal trasferimento in Albania dei primi 40 migranti, è già tutto un andirivieni. In tre sono tornati indietro: due perché inadatti al regime di trattenimento, uno — un cittadino bengalese, venditore di rose in Italia dal 2009 — rimpatriato, si dice, su base volontaria. Un viaggio inutile, umiliante, dispendioso. Una parabola che si sarebbe potuta concludere in Italia, senza costi aggiuntivi, senza teatri dell’orrore oltre l’Adriatico.

Ci dicono che tutto è sotto controllo. Ma nessuno sa chi parte, né quanti, né da dove. Non ci sono nomi, né volti. Solo numeri da spostare, come container. Non c’è un diritto, non c’è un appello. Solo trattenuti. Trattenuti da chi? Perché? Per quanto?

Chi non ha paura di guardare negli occhi la miseria, sa riconoscere il puzzo della menzogna. E questa è una menzogna che puzza di propaganda, che gronda l’urgenza non della giustizia, ma del consenso. Dobbiamo far vedere che “facciamo qualcosa”. E per farlo, usiamo le persone. Come carne. Come cifra da far scorrere sotto ai titoli dei giornali.

E se qualcuno osa chiedere protezione internazionale in quei centri, come accaduto l’11 aprile a un migrante trasferito a Gjader, la giustizia interviene. La Corte d’Appello di Roma ha stabilito che il trattenimento è illegittimo. Che quel migrante va riportato in Italia. Che il Protocollo con l’Albania non può sostituire i principi costituzionali. Che il diritto d’asilo non si sospende. Nemmeno in mare.

Dopo la Libia, il centro di Gjadër, in Albania, sarà il nostro nuovo confine morale. Là getteremo chi non vogliamo più guardare. Là chiuderemo, fuori dalla vista, la nostra vergogna. Perché sì, è vergogna, non sicurezza. È repressione, non ordine. È una nuova forma di esilio, quella che prepariamo per loro e, insieme, per noi stessi. Perché chi rinchiude è sempre più prigioniero di chi è rinchiuso. Continua a leggere su LaCapitale.it