Mentre fuori è festa, il Natale in ospedale di chi cura e di chi spera: «C’è meno frenesia e più umanità»
Il 25 dicembre visto con gli occhi di un infermiere in servizio tra emergenze, difficoltà che pesano il doppio e momenti che restano addosso: «È un giorno di rinuncia, ma prevale il senso di responsabilità»
Il 25 dicembre, l’ospedale è diverso fin dalla soglia. Chi lo ha vissuto, e lo vive, parla di un «silenzio più denso, quasi rispettoso». Nicodemo Capalbo quest’anno veste i suoi panni da infermiere nel giorno di Natale. Non è la prima volta, in una vita di lavoro al servizio di chi ha bisogno di cure. L’atmosfera la conosce già: corridoi meno affollati, luci più soffuse, qualche addobbo discreto messo dal personale, per portare un po’ di aria di festa anche in corsia. Un alito di festa, diciamo. Perché in ospedale non c’è allegria. «Si avverte subito che fuori è festa, ma lì dentro no: la malattia non conosce calendario – racconta –. Si respira un’atmosfera sospesa, fatta di attesa, di nostalgia, ma anche di una strana intimità umana che nei giorni normali spesso si perde nella frenesia».
Il Natale in ospedale è un giorno di rinuncia. Per i pazienti e per chi li assiste. «Lavorare a Natale significa rinunciare a mia figlia che scarta i regali, a mia moglie, ai miei genitori, all'affetto dei miei cari e, perché no, al pranzo in famiglia, agli abbracci».
È una rinuncia alla quale Nicodemo Capalbo, e tanti altri come lui, non si sottrae per senso del dovere. Perché il lavoro è lavoro. Ma che pesa, sempre. «Anche dopo anni non ci si abitua», spiega. E non basta la consolazione, dopo aver prestato servizio al Nord per diverso tempo, di essere a un passo da casa. «Dentro convivono due emozioni opposte: da un lato il dovere professionale, la consapevolezza che qualcuno ha bisogno di te proprio quel giorno; dall’altro il desiderio profondissimo di vivere la normalità che agli altri sembra scontata».
Li hanno definiti eroi gli infermieri, quelli che durante la pandemia da Covid si sono spesi con tutte le proprie forze, anche oltre il dovuto, per assicurare assistenza a chi stava male. E una buona dose di eroismo è rimasta in quanti ancora oggi, stritolati tra difficoltà logistiche e carenze d’organico, affrontano turni massacranti e fanno i salti mortali per non far mancare il proprio apporto.
«Non è eroismo: è responsabilità – precisa Capalbo –. Ma è giusto dirlo chiaramente, perché spesso viene data per acquisita».
A fare la differenza, a Natale, sono i piccoli gesti. «Un caffè condiviso in silenzio alle 6 del mattino, una fetta di panettone portata da casa, una carezza a un paziente solo, una videochiamata fatta partire per permettere a qualcuno di “essere a tavola” con la famiglia almeno per qualche minuto».
Il 25 dicembre è per tutti lo stesso giorno solo sul calendario. «Per i pazienti il Natale non è la festa, ma la speranza – dice Capalbo –. Per noi operatori è il tentativo di restituire umanità anche quando le risorse sono poche».
Un’umanità che emerge, più forte di sempre, anche tra colleghi. «Nei giorni di festa diventano famiglia. Ci si guarda di più negli occhi, ci si aiuta senza bisogno di chiedere, ci si copre a vicenda nei momenti di stanchezza. Una battuta, un sorriso, un “vai cinque minuti, ci penso io” valgono più di qualsiasi decorazione natalizia».
Capitano spesso situazioni che restano addosso: «Anziani soli, senza una visita, pazienti che peggiorano proprio a Natale, familiari che piangono in silenzio per non disturbare “perché oggi è festa”. Sono momenti che ti porti a casa, anche quando torni dopo il turno».
E poi ci sono le emergenze, che non vanno mai in vacanza. «Nei giorni di festa non diminuiscono, ma diventano più complesse. Meno personale, servizi ridotti, difficoltà organizzative. Si lavora spesso al limite, affidandosi all’esperienza e allo spirito di squadra. La responsabilità è la stessa, ma il margine di errore è più stretto».
Le criticità con cui la sanità pubblica deve fare i conti tutto l’anno — carenza di organico, turni massacranti, ferie negate — non spariscono durante le festività, «anzi spesso pesano di più», evidenzia Capalbo. «In Calabria non diventano mai davvero “gestibili”: diventano solo più evidenti. Il sistema regge grazie al sacrificio continuo dei professionisti, non grazie a una programmazione adeguata».
Da qui un messaggio semplice, da far arrivare a tutti: «A Natale in ospedale non lavorano “numeri”, ma persone. Persone che hanno famiglie, stanchezza, emozioni, e che nonostante tutto garantiscono il diritto alla salute anche quando lo Stato non garantisce loro condizioni dignitose».
Nicodemo Capalbo è un infermiere che si preoccupa delle esigenze dei pazienti ma anche di quelle dei suoi colleghi. È un sindacalista del Nursind, conosce bene tutte le difficoltà con le quali la sua categoria si scontra quotidianamente e non esita a denunciarle, sempre lavorando per trovare una soluzione.
«Organici adeguati, retribuzioni dignitose, rispetto dei riposi, valorizzazione reale della professione, non soltanto a parole»: queste le esigenze degli infermieri durante le festività. E non solo.
La sanità pubblica ha ancora bisogno di tanto. «Negli ultimi anni qualche passo in avanti c’è stato, ma non basta. Il divario con regioni come Toscana, Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte resta profondo e inaccettabile».
E allora, a Natale, è lecito esprimere un desiderio. Uno solo, ma grande. «Che la sanità calabrese garantisca gli stessi diritti, le stesse cure e la stessa dignità di quella del Nord Italia. Non chiediamo privilegi. Chiediamo equità, rispetto e la possibilità di lavorare bene per curare meglio». Un desiderio che non è solo quello di Nicodemo Capalbo, ma quello di tutti i calabresi.