Natale patinato sui social, ma nei commenti è tutta un’altra storia: Occhiuto e le verità che non si possono nascondere
Su Facebook e Instagram tutti felici, ma quando si abbassa il telefono tutto cambia. Sotto i post del governatore, fiumi di lamentele da parte dei calabresi: «Venga nei pronto soccorso, qui si muore abbandonati»
A Natale, sui social, siamo tutti felici. Le tavole sono impeccabili, i volti arrossati dal freddo sorridono, le famiglie sono unite, i bambini ridono davanti agli alberi addobbati. Le case sembrano uscite da una rivista, i filtri ammorbidiscono la luce, le parole sono educate, gentili, rassicuranti. Le serate nei locali sono un susseguirsi di calici alzati, musica, luci soffuse, auguri sussurrati e foto di gruppo studiate con cura. Tutti stretti, tutti vicini, tutti bellissimi. Ci sono i ritorni di chi vive altrove, gli amici che si ritrovano, le risate ripetute tre volte per essere sicuri che vengano bene in camera.
È la felicità in formato orizzontale, pronta per essere postata.
È il grande teatro digitale delle feste: una parata di armonia, ordine, gratitudine. La felicità come dovere sociale. La serenità come postura pubblica.
Poi abbassi il telefono. E fuori dallo schermo la vita riprende com’è davvero: imperfetta, sgualcita, asimmetrica.
C’è chi lavora anche a Natale.
Chi aspetta una visita medica da mesi.
Chi non partirà mai.
Chi è partito e non tornerà.
Chi è disoccupato.
Chi vive di contratti precari.
Chi lotta contro la solitudine.
Chi arriva a fine mese contando gli scontrini.
Chi guarda i figli andare via.
Chi non ha tempo per sorridere davanti all’albero.
Il Natale reale non somiglia al Natale online.
E quella fessura, quella piccola crepa tra immagine e carne, basta ormai per far entrare tutta la verità.
Succede così la sera della vigilia. Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, affida ai social il suo video di auguri. Tono istituzionale, parole calme, registro solenne: pace, serenità, comunità. Tutto al posto giusto. Tutto pronto per essere condiviso, commentato, apprezzato. Il potere che parla nella lingua nuova dei social: diretta, pulita, televisiva. Un avatar composto, in alta definizione.
Ma sotto quel video, nei commenti, esplode tutta un’altra storia.
E non è una storia gentile.
C’è chi scrive: “Presidente, venga nei pronto soccorso”.
Chi denuncia reparti pieni, ambulanze ferme, viaggi disperati verso ospedali lontani.
Chi accusa: “Qui si muore abbandonati”.
Chi ironizza sui Capodanni RAI.
Chi se la prende con i calabresi stessi: “Lo avete votato”.
Chi è stanco.
Chi è arrabbiato.
Chi ha paura.
Chi non ci crede più.
E non sono troll, non sono militanza organizzata, non è propaganda coordinata.
È vita vera che si riversa sotto un post di auguri.
La Calabria, in quei commenti, non parla con la lingua levigata dell’istituzione. Parla con la lingua antica della necessità. Non è solo sanità, anche se la sanità qui è la ferita più scoperta. È tutto il resto: trasporti, lavoro, opportunità, servizi, fiducia. È la sensazione di essere sempre in coda a qualcosa: un ufficio, una visita, una firma, una risposta, una speranza.
Ed è allora che succede la cosa più importante: il Natale online smette di essere una cartolina e diventa altro.
Per anni i social hanno regalato alla politica l’illusione perfetta del consenso permanente. Bastava pubblicare, bastava dichiarare, bastava annunciare. Like, cuori, applausi digitali. La comunicazione come anestesia. Il politico come influencer. La realtà come sfondo.
Ma oggi i social non sono più solo una vetrina. Sono diventati una stanza senza filtri. E in quella stanza, quando entra la realtà, entra senza chiedere permesso.
Il video di Occhiuto è solo l’episodio più visibile. Non l’unico.
Basta scorrere un po’, guardare le pagine, i post, i profili non Personali. Cambiano i volti, cambiano i temi, ma il coro è sempre lo stesso. Una delusione civile che non trova casa. Una protesta che non diventa mai politica. Una rabbia che resta confinata alla tastiera, come una malattia che non guarisce mai.
E qui, diciamolo con onestà, entra in gioco un’altra verità: noi calabresi siamo diventati maestri anche nel lamento digitale.
Scriviamo, denunciamo, accusiamo.
Ma raramente pretendiamo davvero.
Raramente trasformiamo quella rabbia in comunità. Non protesta: sfogo.
Non movimento: rassegnazione condivisa.
È il teatro del lamento e del dolore 2.0.
Ma dobbiamo ricordarci che la verità non abita nella comunicazione, ma nei corpi. Nei corpi che lavorano, che soffrono, che aspettano, che emigrano, che tengono insieme famiglie a pezzi. E oggi quei corpi, quasi paradossalmente, trovano voce nei commenti sotto un post. Non nei convegni. Non nei talk-show. Non nelle conferenze stampa. Nei commenti. Lì dove la grammatica è storta ma la vita è piegata.
Allora la vera domanda è semplice e terribile: dove sta la verità, nel tempo della post-verità?
Sta nei video perfetti e ben illuminati, nei discorsi calibrati al millimetro, nei comunicati che raccontano una realtà sempre un po’ più ordinata e rassicurante del vero? Sta nei like, nei cuori, nelle reazioni entusiaste che scorrono sotto ogni post istituzionale? Oppure sta, al contrario, lì sotto, nei commenti scritti di notte, fuori dai reparti, nelle case fredde, sugli autobus che non passano, nelle stanze di chi non sa se domani potrà ancora restare? Sta nella frustrazione che esplode, nella delusione che si fa urlo, nella stanchezza che non trova più parole educate? E se non fosse così semplice? Se non fosse né di sopra né di sotto? Se anche il dolore, sui social, a furia di ripetersi, rischiasse di diventare una nuova retorica? Se la rabbia amplificata finisse per trasformarsi in un altro spettacolo, solo dall’altra parte dello schermo? Forse oggi la verità è diventata un campo di battaglia. Una terra contesa.
Non appartiene più solo al potere, ma non appartiene neppure soltanto a chi commenta. È una linea mobile, incerta, che scivola avanti e indietro tra racconto e realtà, tra propaganda e sfogo, tra regia e spontaneità. E in mezzo, ci siamo noi.
E i social, tanto criticati, tanto usati, sono il campo di battaglia. Il video di Natale di Occhiuto, allora, può essere letto come un esperimento sociale involontario. Sopra, il rito. Sotto, la realtà. Una realtà che non usa termini tecnici: usa delusione, rancore, esasperazione. Domani, lo sappiamo, tornerà tutto come prima. Conferenze stampa. Post rassicuranti. Narrazioni ordinate. Avatar perfetti.
Ma una cosa resterà. Resterà questa distanza gigantesca, tra chi racconta il potere e chi vive la realtà. Resterà l’eco di quelle voci. Resterà la prova che la comunicazione non basta più. Che il consenso virtuale è un’illusione che si scioglie in un secondo. Che lo specchio, una volta acceso, non puoi più spegnerlo davvero. E resterà anche la nostra responsabilità di cittadini, di decidere se restare spettatori del nostro lamento o diventare finalmente popolo. Perché, alla fine, la realtà ha una qualità ostinata: vince sempre. Anche nel tempo della post-verità, un luogo in cui la verità riaffiora c’è.
È imperfetto, rumoroso, a volte ingiusto.
Ma è lì. Oggi quel luogo si chiama social network. E la morale è semplice. Crudele. Antica: chi di social ferisce, di social perisce.
Il resto: luci, filtri, auguri, sorrisi obbligatori, è solo scenografia.