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25/12/2025 ore 13.01
Attualità

Oltre il velo cristiano, quando il Natale diventa memoria: radici antiche nel solstizio d'inverno e nel cuore del Sud

Un racconto che attraversa il buio dell’inverno per ritrovare fuochi arcaici, gesti collettivi e memorie contadine: dalle feste cosmiche precristiane alle usanze del Mezzogiorno, il rito natalizio emerge come risposta umana al tempo che muore e rinasce

di Gianfranco Donadio*

Immaginiamo di essere in una notte buia e gelida di dicembre, secoli fa, quando l'inverno stringeva la terra in una morsa di oscurità. Il sole sembrava svanire sempre di più ogni giorno, e con esso la speranza di raccolti futuri, di calore, di vita. In quel momento primordiale, gli esseri umani non avevano bisogno di calendari cristiani per celebrare. Accendevano fuochi, si riunivano in cerchio, probabilmente scambiavano doni rudimentali per scongiurare il buio. La festa di Natale è proprio questo – un'eco profonda del solstizio d'inverno, quel punto di svolta cosmico intorno al 21-22 dicembre, quando il giorno più corto dell'anno segna la "rinascita" del sole. Non è un caso che la Chiesa, nel IV secolo, abbia scelto il 25 dicembre per fissare la nascita di Gesù Cristo: era un'astuta sovrapposizione su feste pagane come i Saturnalia romani, dove si festeggiava Saturno con banchetti e inversioni sociali, o il Yule nordico, con i suoi tronchi ardenti e spiriti benevoli. Come esseri umani, abbiamo sempre usato questi riti per affrontare l'incertezza stagionale, trasformando la paura dell'inverno in un atto di comunità e rigenerazione. È un legame atavico con la natura, che ci ricorda quanto siamo collegati ai cicli del mondo, ben prima di qualsiasi dogma religioso.

In senso generale, gli usi e costumi natalizi sono un tappeto tessuto da fili antichi: l'albero evergreen, simbolo di vita eterna nei culti germanici, addobbato con luci che mimano le stelle del solstizio; i doni, retaggio dei Saturnalia, dove schiavi e padroni si scambiavano ruoli per un giorno, promuovendo un'uguaglianza effimera; i canti e le feste, che in molte culture europee servono a rafforzare i legami sociali in tempi di scarsità. Le processioni con torce nelle valli alpine o ai mercati invernali scandinavi, sono riti che celebrano il ritorno della luce, un'antropologia viva che combatte l'isolamento invernale con calore umano. Ma è da noi nel Sud, terra di stratificazioni culturali – dalle influenze greche e bizantine a quelle normanne e arabe – che queste tradizioni assumono un sapore intimo, radicato nella vita quotidiana delle comunità rurali. Qui, il Natale è un ponte tra il sacro e il profano, tra il cosmo e il focolare domestico.

Prendiamo la Calabria, il mio focus preferito per la sua autenticità grezza. La Calabria è una regione dove le montagne della Sila incontrano il mare ionico, quelle dell’Aspromonte li incontrano entrambi i mari, e le tradizioni natalizie sono un misto di devozione cristiana e sopravvivenze pagane.

Immaginiamo un paese delle aree interne come sono tanto in Calabria. Qui, le famiglie si riuniscono per la Novena, quei nove giorni di preghiere e canti che precedono il 25, con zampognari – suonatori di zampogna, eredi di pastori antichi – che girano per le strade (una volta) innevate, intonando melodie che echeggiano riti solstiziali. È un momento di connessione non solo con la divinità, ma con gli antenati e con la terra. Anche nelle aree costiere, come la Costa Viola, la Vigilia del 24 è sacra: un digiuno parziale dalla carne, sostituita dal pesce, che simboleggia purificazione prima del rinnovamento. Ma sotto, c'è l'eco di antichi riti invernali, dove l'astinenza preparava al nuovo ciclo. E poi ci sono le varianti regionali: in provincia di Catanzaro, in alcuni casi si usa ancora decorare con rami di agrifoglio e vischio, piante magiche precristiane per protezione; nelle zone interne come il Pollino, le donne, forse, preparano altari domestici con candele che bruciano tutta la notte, un gesto alla luce solare che rinasce.

I cibi e i dolci calabresi sono il cuore pulsante di questa festa, un'esplosione di sapori che legano il corpo all'anima della terra. Sono storie tramandate, atti di amore familiare che combattono il freddo con dolcezza e abbondanza. Durante la Vigilia, il tavolo si riempie di piatti di pesce umili ma ricchi di significato: il baccalà alla calabrese, fritto con cipolle e pomodori, o lo stoccafisso bollito con patate e olive, sono cibi che evocano il mare come fonte di vita in un inverno agricolo. I dolci, preparati settimane prima in cucine affollate, in altro tempo, di nonne e nipoti, con ingredienti come fichi secchi (simbolo di fertilità solare), mandorle e miele (dolcezza del rinnovamento). I petrali di Reggio, quelle mezzelune (che con la forma richiamano il solstizio) di frolla ripiene di fichi, noci, cioccolato e un tocco di vino cotto, sono un abbraccio caldo. Ogni morso racconta di raccolti estivi conservati per l'inverno. Le grispelle, o zeppole di patate fritte e inzuppate nel miele, croccanti fuori e soffici dentro, si mangiano calde intorno al fuoco, come augurio di calore familiare. Non dimentichiamo i cuddureddi, anelli fritti semplici o glassati con zucchero, che i bambini infilano al braccio come bracciali commestibili; la pignolata, mucchietti di pasta fritta coperti di miele e confettini colorati, una gioia per gli occhi e il palato; o il torrone calabrese, morbido con mandorle tostate, erede di offerte pagane agli dei del sole.

E per Santa Lucia, il 13 dicembre – data che anticamente segnava il solstizio prima della riforma gregoriana – la cuccia, grano bollito con ricotta, noci e cannella, celebra la "santa della luce" con un dolce che nutre e illumina l'anima. Questi cibi, in un'antropologia del gusto, rappresentano l'accumulo contro la scarsità, un rito che trasforma il cibo in simbolo di passaggio dal vecchio al nuovo anno.

Parlando di figure iconiche, l'origine di Babbo Natale è un viaggio affascinante che parte dal Sud e arriva al Polo Nord moderno. Tutto inizia con San Nicola, vescovo di Myra nel IV secolo, in quella che oggi è la Turchia ma con radici bizantine che riecheggiano nel Mezzogiorno italiano. La leggenda racconta di un uomo generoso che salvò tre sorelle dalla povertà gettando borse d'oro nel loro camino – da qui i doni natalizi. In Calabria, dove San Nicola è patrono di paesi come Bagnara Calabra, Sartano, Cervicati ecc., è venerato come protettore dei bambini e dei naviganti, ma anche degli armenti, con feste il 6 dicembre che includono, “paniciaddri”, dolci e regali.

Ma come è diventato il paffuto Santa Claus? Attraverso migrazioni culturali gli olandesi lo portarono in America come Sinterklaas, un vescovo con mantello e mitra. Nel XIX secolo, poeti come Clement Clarke Moore e illustratori come Thomas Nast lo trasformarono in un elfo barbuto su slitta, influenzato da divinità pagane come Odino, che cavalcava i cieli invernali donando premi. In Calabria, Babbo Natale è un'importazione decisamente recente, ma il suo spirito – generosità contro il buio – si fonde con tradizioni locali, come i doni portati dalla Befana all'Epifania, una vecchia strega benevola, erede di dee pagane.

E poi c'è il fuoco, elemento primordiale che infonde al Natale calabrese un significato profondo di rito di passaggio. La notte del 24, nelle piazze dei paesi (di alcuni) si accendono le "fòcare", grandi falò comunitari intorno ai quali la gente balla, canta e condivide cibo. Il fuoco purifica, scaccia demoni invernali e simboleggia il sole che vince le tenebre, un'eredità dei riti solstiziali romani e celtici. Il ceppo di Natale, o "ciuccio", un tronco massiccio di ulivo o quercia, viene acceso la Vigilia e bruciato lentamente fino al Capodanno o all'Epifania. Ogni sera, la famiglia si raduna intorno, raccontando storie mentre le fiamme crepitano; le ceneri, sparse nei campi, augurano fertilità per l'anno nuovo. È un momento liminale, come descritto da Arnold van Gennep. È una separazione dal vecchio (il buio, i peccati), transizione (il bruciore graduale) e incorporazione nel nuovo (la luce crescente). Nei giorni che approssimano il Capodanno, questo rito si intensifica: fuochi più piccoli, petardi e lanterne segnano il passaggio, un'esplosione di energia che espelle l'anno vecchio e accoglie il rinnovamento, legando l'individuo alla comunità e al cosmo.

Come tutto evolve, anche il Natale sta mutando sotto i nostri occhi, verso una modernità che a volte diluisce queste radici antiche. Un tempo, in Calabria, la festa era un affare intimo, legato ai ritmi agricoli; oggi, con l'urbanizzazione e il turismo, i presepi viventi di Panettieri, o Morano Calabro, o Cribari, attirano folle, trasformando riti sacri in spettacoli Instagram-ready. I dolci artigianali competono con pandori industriali nei supermercati, e i falò tradizionali cedono il passo a luci LED e alberi sintetici importati. La globalizzazione ha commercializzato il solstizio. Babbo Natale è un brand Coca-Cola, i doni un'obbligo consumistico, e il fuoco un emoji su WhatsApp. Eppure, in questa trasformazione, c'è resistenza umana – giovani calabresi riscoprono ricette antiche su TikTok, o accendono falò virtuali in comunità online. In un'era di cambiamenti climatici, dove gli inverni sono meno prevedibili, e di disconnessione sociale, forse tornare alle origini pagane del Natale ci potrebbe aiutare non come nostalgia, ma come strumento per riconnetterci, per celebrare la luce interiore contro ogni oscurità. Dopotutto, il solstizio ci insegna che dopo il buio, c'è sempre una rinascita – e noi, umani, siamo maestri nel reinventarci.


*Documentarista