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25/11/2025 ore 09.41
Attualità

Le vittime invisibili dei femminicidi: così il progetto Respiro ha tirato fuori dall’abisso 120 orfani

Per anni nessuno si è occupato di loro. In Calabria, l’associazione Sinapsi ha dovuto scovarli uno per uno. Il presidente Giuseppe Lombardo: «Oggi finalmente c’è una mappatura, ma i nostri interventi devono diventare prassi» 

di Mariassunta Veneziano

Spalle contro un muro, rannicchiati sul pavimento, le ginocchia strette al petto con la forza di chi non ha più nulla da stringere. Niente baci, né abbracci né carezze quando fuori cala il buio e anche in casa è tempo di spegnere le luci. Niente più mamma perché mamma non c’è più. Li si immagina così gli orfani di femminicidio, ma dietro c’è una complessità di sentimenti e situazioni che solo sguardi esperti riescono a cogliere. Ne sa qualcosa Giuseppe Lombardo, psicoterapeuta e presidente dell’associazione Sinapsi, che da Marina di Gioiosa Ionica cura dal 2021 per la Calabria il progetto Respiro. Un acronimo che sta per “Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali” ma che volutamente richiama il processo fisiologico fondamentale per la vita, a voler sottolineare il legame con un’esistenza che deve andare avanti, nonostante tutto.

Un progetto, attivo al momento in tutto il Sud Italia per gli orfani sotto i 21 anni, che aspira a diventare prassi. «L’obiettivo è creare delle linee guida omogenee regionali e interregionali in modo da poterci muovere di qui in avanti con un protocollo», aveva detto Lombardo due anni fa a LaC News24 in occasione di un altro 25 novembre. Da allora qualcosa si è mosso, ma resta tanto da fare: «È un percorso che continua, ma che ha bisogno di essere messo a sistema».

Intanto, però, c’è finalmente una mappatura. Gli orfani non bisogna più andare a cercarli uno per uno, telefonando ai Comuni e alle redazioni che si sono occupati dei casi di cronaca. «Oggi c’è una statistica attendibile, in tutto il Sud Italia abbiamo preso in carico 120 orfani con il progetto Respiro». Un lavoro enorme, che ha dovuto colmare un abisso profondo anni, fatto frugando nel buio per tirare fuori chi era rimasto nascosto.

Perché in un femminicidio non c’è solo una vittima. C’è la donna che viene uccisa da chi non accetta di averne il possesso, e poi ci sono le cosiddette vittime secondarie, o collaterali. Figli uccisi, utilizzati come strumento di vendetta o sopravvissuti alla violenza. Ma a un costo altissimo. Un costo che per lungo tempo nessuno ha cercato di ripagare. Sono quel che resta della cronaca, quando il clamore mediatico si spegne e le telecamere vanno via. Vittime secondarie, collaterali, e troppo spesso invisibili.

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Un vuoto lungo anni

«Con gli orfani dei femminicidi più vecchi abbiamo trovato situazioni ormai incistate, che avevano scavato per anni ferite curate per come ognuno era riuscito a fare da sé – racconta Lombardo – e lì ovviamente è più complicato intervenire». Perché nel silenzio si sviluppano difficoltà di tipo psicologico, sociale, economico e familiare. «I problemi emotivi sono ovviamente quelli più grossi, soprattutto se alle spalle non c’è un ambiente abbastanza solido», afferma il presidente di Sinapsi.

Gli esperti parlano di sindrome da lutto traumatico infantile per descrivere l’impatto psicologico devastante dei femminicidi sui figli. Tra i principali sintomi disturbi del sonno e dell’alimentazione, ansia, isolamento, comportamenti aggressivi, apatia, sfiducia generalizzata, sensi di colpa e depressione. «A volte si presenta un rifiuto di proseguire gli studi, dato dagli aspetti depressivi e dal senso di inutilità generalizzato che provoca il ritenersi ingiustamente precipitati in un dolore senza fine, e diviene difficilissimo mantenere il precedente standard di rendimento scolastico, oppure si verificano abbandoni», si legge nella relazione sugli orfani di femminicidio della Commissione parlamentare d’inchiesta del 6 agosto scorso, richiamata da un recente rapporto di Openpolis sull’impatto della violenza di genere sui minori.

«Respiro non rappresenta una panacea ma ha sicuramente aiutato molto», sottolinea Lombardo. Nel progetto psicologi, assistenti sociali, avvocati. E una figura importantissima, il tutore di resilienza. «Il nostro è a Lamezia e si occupa di tutta la Calabria. Lavora tutti i giorni a contatto con le famiglie. Immagina per loro un percorso che sviluppa confrontandosi con l’équipe».

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Il supporto ai caregiver

L’impegno non riguarda solo gli orfani, ma anche i familiari che si ritrovano a doverli accoglierli dopo un evento traumatico da cui loro stessi sono stati colpiti. «Si dà per scontato che ci sia il supporto intrafamiliare ma non sempre è così – evidenzia il presidente di Sinapsi –. Spesso l’affido intrafamiliare non è la scelta più appropriata. Ci sono familiari che arrivano a negare la verità ai ragazzi, o che utilizzano atteggiamenti ed espressioni che possono portare a una ritraumatizzazione».

Da qui la necessità di dare supporto anche ai caregiver. Emotivo soprattutto. E questa è la parte più difficile. Poi c’è l’aspetto economico, che invece è più lineare: «Affianchiamo alle famiglie un tutore legale che le guida nell’accesso ai fondi esistenti per le spese che riguardano gli orfani», spiega Lombardo. Anche se quei fondi non sempre sono sufficienti.

Respiro cerca di accompagnare orfani e familiari lungo tutto il percorso, faticosissimo, della rinascita. E se mamma è stata uccisa da papà, e papà è in carcere, c’è da occuparsi anche di questo. «Spesso ci si dimentica che la tutela deve essere indirizzata prima di tutto al minore – dice Lombardo – perché è lui l’anello debole. Ci si sofferma sul diritto del genitore a vedere il figlio ma non ci si pone il problema se il figlio sia pronto o di cosa possa dirgli il padre». È qui che la figura dell’esperto emerge in tutta la sua rilevanza. «Parliamo di bambini e ragazzi che hanno già perso entrambi i genitori, il rischio è che vivano la perdita due volte».

Un equilibrio delicatissimo

C’è da muoversi con accortezza, come in una partita a Shanghai. Ogni mossa deve essere calibrata alla precisione perché c’è un equilibrio fragilissimo da preservare, quando non da costruire.

E poi ci sono i casi non classificati come femminicidi, donne scomparse o “suicidate”. «Noi cerchiamo di far rientrare gli orfani nel percorso di assistenza come casi irrisolti», spiega Lombardo. Per quelle che si salvano, invece, e per i loro figli non esiste tutela. Eppure ce ne sarebbe bisogno.

«Queste sono situazioni da tenere sott’occhio 365 giorni all’anno. Il 25 novembre si aprono tante finestre, e questo è un bene, ma non va bene che poi non ne parli più nessuno».

Dal progetto alla prassi

Respiro, intanto, continua il suo cammino. Dopo la scadenza al termine dei quattro anni inizialmente previsti, il progetto è stato ripristinato per un altro anno, con l’obiettivo di congiungersi al prossimo bando quadriennale che riguarderà, stavolta, il Centro-Sud e il Nord. Ma il fine ultimo, rimarca Lombardo, è uscire dalla logica del progetto ed entrare in quella della prassi. «Al momento si sta occupando di tutto il Terzo settore. Ma noi abbiamo bisogno di una credibilità istituzionale, i nostri interventi devono poter avvenire in maniera sistematizzata».

Le criticità sono ancora tante: servizi inesistenti, consultori senza budget, un apparato che non è ancora strutturato come dovrebbe. «Una delle cose più difficili è gestire gli orfani che si spostano, che cambiano regione. Servono procedure di intervento nazionale. Alcuni, che vanno via da situazioni particolari, nei luoghi in cui arrivano non hanno più neanche un nome e non hanno accesso a nulla».

Alla fine, tutto si riduce a questo: garantire a chi è rimasto un futuro che non sia costruito sulle macerie del passato. Restituire presenza anche laddove c’è un’assenza che non potrà più essere colmata. Far sì che nessun bambino o ragazzo debba più sopravvivere nella tenebra di una violenza che non ha scelto. Respiro continua a tenere aperto questo varco, in bilico ma con determinazione, ricordando a tutti che la protezione degli orfani di femminicidio non può essere un gesto episodico né un gesto a scadenza. È un impegno collettivo, quotidiano, che chiama le istituzioni a fare la loro parte e la società a non distogliere lo sguardo. Perché il silenzio, ancora una volta, sarebbe l’errore più grande.