Pasolini alla maturità. Quando la scuola incontra la poesia che ci riguarda
Ben venga questa traccia, proprio oggi. Perché non c’è esame senza conflitto, senza dolore, senza poesia. E forse nessuno, più di lui, ha saputo raccontarci che crescere non significa adattarsi, ma scegliere di restare umani
C’è un cortocircuito meraviglioso, oggi, nella scuola italiana. Un paradosso che grida, mentre tutto tace. Il Ministero dell’Istruzione — lo stesso che negli ultimi decenni ha svuotato la scuola della sua funzione critica, piegandola alla logica della prestazione e del profitto — affida oggi a migliaia di diciottenni una poesia di Pier Paolo Pasolini. E lo fa come se nulla fosse. Come se Pasolini fosse un autore tra tanti. Un nome da antologia, quasi sempre fuori programma. Un esercizio da svolgere in qualche ora.
Ma Pasolini non si addomestica. Non si studia: si subisce. Si attraversa.
Oggi, tra i banchi di scuola, accade qualcosa che somiglia a una giustizia poetica. Silenziosa, ma profonda. Negli occhi sgranati di migliaia di ragazzi e ragazze chiamati ad affrontare la prima prova dell’esame di Stato, torna Pier Paolo Pasolini. Non come autore da spiegare, ma come compagno di viaggio. Non come icona da imbalsamare, ma come voce viva e ancora scandalosamente necessaria.
Una delle tracce ministeriali propone infatti una poesia giovanile, tratta dall’Appendice I a “Del diario” (1943-1944). Un testo lontano dalle invettive civili del Pasolini maturo, ma forse proprio per questo ancora più struggente. È il Pasolini adolescente che si affaccia al mondo e lo contempla con uno sguardo insieme incantato e ferito. Che nella natura — nella luna, nei grilli, nel silenzio — riconosce il riflesso della propria inquietudine. Un Pasolini nudo, vulnerabile, privo delle corazze ideologiche. Un Pasolini “prima di diventare Pasolini”.
Che il Ministero dell’Istruzione, oggi, chieda ai ragazzi di confrontarsi con questo autore è, in sé, un gesto importante. Non tanto per la scelta — colta e raffinata — del brano, quanto perché Pasolini rappresenta da sempre tutto ciò che sfugge, che resiste alle definizioni, che non si lascia normalizzare. E cosa c’è di più antitetico, di più scomodo rispetto alla macchina rituale e burocratica della scuola italiana, se non proprio lui? Eppure eccolo lì, tra le pagine ufficiali della prova di Stato, come una provocazione dolce e necessaria. Come una domanda che non cerca risposta.
Nella poesia proposta, la natura diventa specchio dell’esistenza. Ogni elemento — la luce, le stelle, il canto dei grilli — si carica di senso. Diventa metafora del mutamento interiore, dell’inquietudine del crescere, della vertigine dell’essere al mondo. È una lirica dell’attesa e della scoperta, dove l’adolescenza si misura con la propria ombra e il desiderio di senso. Ma dietro quell’apparente quiete, cova già la tempesta pasoliniana: il bisogno di dire, di scrivere, di gridare anche quando tutto tace.
Questa traccia ministeriale ci obbliga allora a interrogarci su cosa significhi “fare scuola” oggi. Trasmettere nozioni? O piuttosto aprire ferite, sollevare domande, risvegliare coscienze? In un tempo in cui la scuola rischia di diventare una catena di montaggio di competenze, riportare Pasolini tra i banchi è un atto radicale. Perché Pasolini non si analizza: si ascolta. Non si archivia in una tesina: si porta addosso. Come una colpa, o forse come una grazia.
E allora ben venga questa traccia. Ben venga Pasolini, proprio oggi, nel giorno in cui si parla di “maturità”. Perché non c’è maturità senza conflitto, senza dolore, senza poesia. E forse nessuno, più di lui, ha saputo raccontarci che crescere non significa adattarsi, ma scegliere — ostinatamente — di restare umani. Anche a costo di restare soli.
Pier Paolo Pasolini alla maturità: una piccola rivoluzione, avvenuta in silenzio. Come il canto dei grilli nelle notti d’estate.