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02/11/2025 ore 14.58
Attualità

Quando la morte era teatro e preghiera insieme, dal “chiantu” alle prefiche: così la Calabria trasformava il dolore in memoria

Un tempo la morte non si nascondeva: entrava nelle case, accolta da preghiere, lamenti e riti che univano i vivi ai defunti. Oggi quei gesti sopravvivono nei cimiteri e nei lumini del 2 novembre

di Andrea Papaccio Napoletano

C’era un tempo in cui la morte, al Sud, non si nascondeva. Entrava in casa come un’ospite attesa, non temuta ma rispettata. Si piangeva, si urlava, si pregava. Si dava forma pubblica al dolore, e lo si trasformava in rito collettivo. Oggi quel legame sembra spezzato: i defunti si salutano in fretta, le esequie si fanno sobrie, il lutto si consuma in silenzio. Ma la memoria di quei gesti antichi spesso drammatici, sempre profondicontinua a sopravvivere nei racconti, nei cimiteri, nei lumini accesi il 2 novembre.

Le prefiche e la scena del dolore

In Calabria, come in gran parte del Mezzogiorno, la morte era teatro e preghiera insieme. Quando qualcuno moriva, le donne del paese accorrevano vestite di nero, si stringevano attorno al corpo e iniziavano il lamento. Non era spettacolo, ma linguaggio. Il pianto rituale — u chiantu — aveva le sue regole, tramandate da madre a figlia. Alcune donne, chiamate prefiche, venivano persino pagate per piangere: rappresentavano il dolore della famiglia, davano voce alla perdita. “Facevano piangere anche chi non voleva piangere”, dicevano gli anziani. Era un modo per garantire al morto la dignità del ricordo, per non lasciarlo andare nel silenzio.

Le tre monete e le porte aperte

Attorno al corpo si svolgevano gesti che avevano radici antiche. Tre monete venivano messe nella bara, o tra le mani del defunto: una per pagare il traghettatore, una per superare le anime erranti, una per il viaggio verso la luce. Nelle case, la veglia durava tutta la notte. Le porte restavano aperte, anche a tarda ora, “perché le anime dei cari potessero entrare a salutare”. Le donne pregavano, gli uomini raccontavano storie, i bambini imparavano che la morte non è una vergogna da nascondere, ma parte del vivere. La fede si mescolava alla superstizione, ma non per paura: piuttosto per familiarità. Si credeva che i morti “venissero a trovare i vivi” nei giorni dei Santi e dei Defunti, non per spaventarli, ma per verificare che tutto andasse bene.

Napoli e il culto delle anime del Purgatorio

A Napoli, il rapporto con la morte aveva un linguaggio tutto suo. Nessun’altra città in Italia ha dialogato così a lungo con l’aldilà. Nei vicoli, le anime pezzentelle — le anime anonime del Purgatorio — venivano adottate dai vivi. Nei sotterranei delle Fontanelle, ancora oggi, c’è chi lascia un fiore o una preghiera accanto a un teschio. Ogni cranio ha un nome, un affetto, una storia: “Donna Concetta”, “il Capitano”, “il piccolo Michele”. In cambio delle preghiere, le anime potevano offrire protezione o piccoli favori. Era un patto silenzioso, un gesto di pietà che teneva uniti vivi e morti nello stesso quartiere invisibile.

Il nuovo volto del lutto

Negli ultimi decenni, però, tutto è cambiato. La morte si è fatta discreta, privata, quasi tecnica. Non si veglia più il corpo in casa, le agenzie funebri si occupano di tutto, i riti religiosi si accorciano. La società moderna ha spostato il lutto nel silenzio individuale, cancellando la coralità del dolore. Eppure qualcosa resta. Nei paesi della Campania e della Calabria, il 2 novembre si accendono ancora candele sui balconi, si portano dolci e fiori al cimitero per tutti”, anche per chi non ha nessuno. Quel gesto semplice, quasi automatico, è la traccia di una cultura che non si arrende alla dimenticanza. Perché il Sud, anche quando tace, continua a parlare con i morti — solo lo fa a voce più bassa.

La memoria che salva

Cambia il modo, non il bisogno. L’uomo meridionale ha sempre cercato nei morti la continuità del senso, la conferma che la vita non si spegne, ma cambia forma. Nelle luci tremolanti del 2 novembre, nei rosari sussurrati davanti a una fotografia, nei cimiteri che si riempiono di profumi e di voci, resiste un’antica verità: la morte, nel Sud, non è mai stata la fine. È una soglia da attraversare insieme — tra fede, paura e amore.