Giustizia e separazione delle carriere, il Sì è avanti ma la partita resta aperta e si gioca tutta sugli indecisi
L’analisi di Alessandra Ghisleri per Euromedia Research rileva un 38,9% contro un 28,9% per il No. Quasi un terzo dell’elettorato non sa ancora se e come votare: il fattore decisivo sarà la mobilitazione
Secondo l’ultimo sondaggio realizzato da Alessandra Ghisleri per Euromedia Research e pubblicato oggi da La Stampa, la maggioranza degli italiani si dice favorevole alla riforma della giustizia che introduce la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Il 38,9% degli intervistati voterebbe per il Sì, mentre il 28,9% sceglierebbe il No. Ma è il dato sugli indecisi, pari a quasi un terzo dell’elettorato, a rendere l’esito del futuro referendum confermativo tutt’altro che scontato.
Il vantaggio del fronte favorevole, dunque, c’è ma non è definitivo. Il fattore decisivo sarà la mobilitazione: chi riuscirà a portare più persone al voto potrà determinare il risultato finale. Il referendum, infatti, non prevede quorum perché si tratta di referendum confermativo di una riforma costituzionale, ma il peso politico e simbolico di un’affluenza bassa potrebbe condizionare l’interpretazione del risultato.
La riforma voluta dal governo Meloni è tra le più significative ma anche la più complessa e per molti “pericolosa” degli ultimi anni. Essa prevede la separazione netta delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, con la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura distinti e una Corte disciplinare. In sostanza, giudici e pubblici ministeri non potranno più passare da una funzione all’altra, ponendo fine a una consuetudine che da decenni alimenta dibattiti e polemiche.
La premier Giorgia Meloni ha definito il progetto «una riforma di libertà e di garanzia per i cittadini», sostenendo che serva a «rendere più imparziale la giustizia». Tutta la maggioranza di governo — da Fratelli d’Italia alla Lega fino a Forza Italia — è compatta nel sostenere il Sì, presentando la consultazione come una battaglia di civiltà contro un sistema giudiziario considerato autoreferenziale e poco trasparente.
Sul fronte opposto, però, il mondo della magistratura si è mobilitato in modo inedito. Nicola Gratteri, procuratore di Napoli e voce di grande autorevolezza nel dibattito pubblico, ha più volte messo in guardia dal rischio che «questa riforma metta le procure sotto il controllo del governo». Gratteri non è isolato: l’Associazione Nazionale Magistrati, i vertici delle procure e diverse personalità del diritto hanno denunciato il pericolo di una politicizzazione della giustizia, temendo che la separazione possa ridurre l’indipendenza del pubblico ministero e avvicinare troppo la funzione inquirente al potere esecutivo.
Le opposizioni si muovono invece in ordine sparso. Il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle hanno espresso netta contrarietà, ma con toni diversi: i dem contestano soprattutto l’impianto costituzionale e il rischio di ingerenze politiche, mentre i grillini parlano di «riforma punitiva» nei confronti dei magistrati. Più sfumata la posizione del cosiddetto “terzo polo”: Italia Viva e Azione si mostrano divise tra chi riconosce la necessità di modernizzare la giustizia e chi teme un indebolimento delle garanzie.
A oggi, quindi, il Sì è in vantaggio, ma la partita è tutta aperta. Gli indecisi restano molti, e la partecipazione popolare sarà la chiave. Il governo punta a trasformare il referendum in un voto di fiducia sull’azione riformatrice dell’esecutivo; l’opposizione cerca invece di farne un giudizio sull’autonomia della magistratura. Tra consenso e timori, il verdetto finale dipenderà da chi riuscirà a parlare — e convincere — quella vasta fascia di italiani che ancora non sa se, e come, votare.