Dalle parole ai fatti, per Gaza e per salari più giusti: lo sciopero che peserà in tasca
Lunedì una parte d’Italia si fermerà. Sarà un atto di fede civile. Decidere che la rabbia non deve restare confinata in uno schermo, ma dovrà misurarsi con la realtà delle strade e delle buste paga
Lunedì 22 settembre l’Italia proverà a fermarsi. Non del tutto, non ovunque, ma abbastanza da rendere evidente una crepa: autobus che resteranno fermi nei depositi, treni che non partiranno dalle stazioni, classi senza insegnanti, porti bloccati. Sarà lo sciopero generale proclamato dai sindacati di base – Usb, Cub, Adl, Sgb – per solidarietà con Gaza, ma anche contro la precarietà, per salari più giusti, per un futuro meno logorante. Sarà un giorno che metterà alla prova la differenza tra un post condiviso e una busta paga che si assottiglierà. Perché indignarsi sui social costa zero. Scioperare costa.
Le motivazioni ufficiali sono chiare: denuncia di un genocidio che si consuma nel silenzio delle diplomazie occidentali, sostegno alla missione Global Sumud Flotilla che tenterà di portare aiuti nella Striscia di Gaza, rifiuto della cooperazione politica ed economica con Israele. Ma non ci sarà solo l’orizzonte internazionale. Dentro lo sciopero troveranno spazio anche i problemi che mordono ogni giorno: salari fermi, precarietà diffusa, contratti scaduti, un welfare che arranca. Sarà una protesta a più livelli: globale e domestica, politica e personale. Non sarà “o Gaza o il salario”, sarà entrambe le cose. Sarà dire: non si può chiedere giustizia nel mondo se si accetta ingiustizia a casa propria.
Un collaboratore scolastico in posizione iniziale perderà tra quaranta e cinquanta euro netti per una giornata intera di sciopero. Un docente di ruolo in classe stipendiale alta supererà gli ottanta-novanta euro netti. Nei metalmeccanici, l’erosione inflazionistica già pesa trentasette euro al mese senza bisogno di scioperi: il 22 settembre si aggiungerà come ulteriore sacrificio. Sarà il prezzo della coerenza: mettere la propria indignazione non solo su Facebook, ma sulla busta paga.
Scioperare non sarà mai un atto individuale. Conterà la massa, la forza collettiva. E allora i numeri parleranno. A Roma, nello sciopero del 6 maggio 2024, Atac registrò il 34,6% di adesione nei mezzi di superficie e il 31,5% nelle metropolitane. Il 20 giugno 2025, altro sciopero generale, la partecipazione fu del 45,1% per i bus ma solo del 18,3% per metro e ferrovie regionali. Nel trasporto extraurbano Cotral, gli stessi sindacati promotori del 22 settembre ottennero un’adesione del 20,40% all’ultima mobilitazione. Percentuali che dicono molto: la protesta c’è, ma non travolge. Sarà una marea che si alzerà, farà rumore, ma non sfonderà gli argini. E allora la domanda è: basterà un’adesione intorno al venti-trenta per cento per piegare la politica, o resterà un segnale più simbolico che reale?
La verità è che negli ultimi anni lo sciopero ha perso la sua aura di “arma totale”. Negli anni Settanta, un’astensione del sessanta per cento bloccava un Paese intero, costringendo il governo a trattare. Oggi, con percentuali dimezzate e servizi minimi garantiti, il potere di paralizzare è ridotto. E allora servirà qualcos’altro: organizzazione, visione, continuità. Perché altrimenti tutto resterà nell’ombra lunga dei social: migliaia di indignazioni a costo zero, milioni di “mi piace”, e poi la vita reale che continuerà uguale.
Scioperare lunedì significherà rinunciare a una parte dello stipendio in un Paese in cui già il trenta per cento delle famiglie fatica a chiudere il mese. Significherà rischiare di sembrare ingenui in un’epoca in cui prevale il cinismo: tanto non cambierà nulla. Significherà esporsi, dire “io ci sono” quando sarà più comodo dire “ci penserò domani”. Ma sarà proprio questo il punto. Lo sciopero non sarà comodo. Non sarà gratis. Sarà un atto di fede civile. Sarà decidere che la rabbia non deve restare confinata in uno schermo, ma dovrà misurarsi con la realtà delle strade e delle buste paga.
Il 22 settembre ci dirà una cosa semplice e brutale: la differenza tra indignazione e impegno si misurerà in euro persi, in treni fermi, in scuole vuote. Se dopo questa giornata resteranno solo i disagi, allora lo sciopero sarà stato un boato effimero. Ma se diventerà la scintilla di una mobilitazione più ampia, allora quel sacrificio personale – quei cinquanta, ottanta, cento euro in meno – avrà avuto un senso. La domanda resterà sospesa, come un pugno chiuso che non troverà ancora la porta da bussare: vogliamo restare spettatori indignati, o vogliamo pagare il prezzo, anche amaro, di essere cittadini?