Tra fede, ’nduja e tarantelle: il pellegrinaggio per i santi Cosma e Damiano che trasforma Riace in un abbraccio mediterraneo
Il paese dei Bronzi ospita tra il 25 e il 27 settembre una delle feste popolari più suggestive del Sud: fedeli e comunità rom si ritrovano insieme, tra ex voto, musica e pellegrinaggi, in un rito che ricompone fratture sociali e culturali
Alla fine degli anni ‘90 ho scalato più volte i sentieri polverosi della Locride all'alba del 25 settembre, mentre il sole sorge timido sullo Ionio, tingendo di arancio le onde pigre e i rovi spinosi. L'ho fatto più volte per girare le immagini di un documentario sui “Santi Medici” per una ricerca antropologica dell'Università della Calabria. L'ho fatto con Antonio Bevacqua, Ottavio Cavalcanti, Agostino Conforti, Antonio Rizzo, compagni di curiosità e di piacere intellettuale. L'ho fatto con la macchina da presa sulle spalle. Ho visto anche tanti lavori interessanti sul tema, come “Zingari e Santi Medici” (2017) del bravo videomaker de LaC, Saverio Caracciolo (da cui sono tratte le foto contenute in questo articolo).
I piedi affondano nella terra secca, resa friabile da un'estate implacabile, mentre l'aria si riempie di un mormorio ritmico: canti in dialetto griko, il lascito di antiche colonie magno-greche, e il tintinnio di ex voto d'argento appesi a bastoni da pellegrino. Il pellegrinaggio verso il Santuario dei Santi Cosma e Damiano a Riace è un cammino di redenzione, dove ogni anno, in questo scorcio d'autunno, la comunità si riunisce per pregare e per ricucire le ferite invisibili di un'identità frammentata. Qui, in un paese appena duemila abitanti aggrappato alla costa reggina, famoso per i suoi Bronzi emersi dal mare come dèi pagani, la festa patronale diventa un'epica antropologica. Un rito complesso che vede fede, folklore e resistenza culturale, che evoca le radici di un Mediterraneo che abbraccia popoli e dolori.

I Santi Cosma e Damiano sono eroi carnali, fratelli gemelli siriani del III secolo, medici anargyroi – "senza argento" – che curavano i poveri gratis, in nome di un Vangelo radicale: "Gratis accepistis, gratis date". Arrestati sotto Diocleziano per il loro cristianesimo ostinato, torturati e annegati, lapidati e decapitati, la loro agiografia pullula di miracoli che sfidano la logica: il trapianto di una gamba etiope su un povero cristiano, o la traversata del mare a nuoto dall'Arabia per portare reliquie in terra calabra. A Riace, il culto arriverebbe nel 1669, quando un braccio reliquiario di San Cosma sbarca da Roma, e nel 1734 i due santi vengono proclamati patroni ufficiali del paese. Ma la leggenda locale è più viva, più terrena: un pastore, dice la tradizione, vide i santi apparire in sogno sul "castedu", un'antica rocca bizantina, e lì sorse il santuario, baluardo contro terremoti e invasioni. Oggi, quel reliquiario d'argento – un braccio proteso come in un gesto di benedizione – è il cuore pulsante della festa, portato in processione da donne a spalle, attraverso campi di ulivi e fichi d'India, fino alla spiaggia di Riace Marina. Lì, imbarcato su una barca, viene avvicinato a uno scoglio dove, si giura, è impressa l'orma del piede di Cosma: un calco granitico che sfida le maree, simbolo di un approdo miracoloso per un popolo di naviganti e esuli.

Dal punto di vista antropologico, questa festa è un laboratorio vivente di sincretismo mediterraneo, dove coesistono sacro con profano in una danza di corpi e di storie. Penso a Victor Turner e alla sua "communitas": durante i tre giorni dal 25 al 27 settembre, le barriere sociali si dissolvono. Devoti da tutta la Calabria – da Stilo a Monasterace, da Caulonia a Roccella Jonica – convergono a piedi, in alcuni casi scalzi o con bastoni nodosi, offrendo ex voto: cuori d'argento per amori guariti, braccia di cera per arti salvati, miniature di navi per traversate fortunate. Ma è la presenza massiccia dei Rom e dei Sinti a rendere il rito potente di colori e di danze, trasformandolo in una "festa degli zingari", come la chiamano gli abitanti del posto.
Da generazioni, queste comunità nomadi, mercanti di bestiame un tempo attirati dalla fiera patronale (ora svanita, ma eco nei loro canti), considerano Cosma e Damiano protettori propri. Santi emarginati come loro, guaritori gratuiti per i reietti. Arrivano da tutta la regione e oltre, con carovane colorate, tamburelli e tarantelle che echeggiano da notte fino all'alba. Vestiti tradizionali – gonne lunghe e foulard rossi per le donne, panciotti ricamati per gli uomini – danzano intorno alle statue settecentesche di scuola napoletana, portate fuori dalla nicchia della Chiesa Matrice di Santa Maria Assunta. È un'esplosione di gioia rituale: la "calata di i santi", con le effigi esposte per essere toccate, baciate, sfregate contro corpi malati in un rito d'”incubatio” che richiama i templi di Asclepio, dove i fedeli dormivano sperando in visioni curative.
Quest'anno, mentre il mondo accelera verso l'oblio digitale, Riace resiste con una tenacia che sa di salsedine e basilico. Il 25 settembre, dalle prime luci, il paese si anima con messe solenni al santuario, col parroco che invoca "San Cosma, intercedi per le nostre sofferenze", e una veglia notturna che richiama pellegrini da tutta la Calabria, accampati sotto le stelle come in un'agorà antica. Il 26, giorno clou, la processione serpeggia dal paese al santuario seguita da bande di ottoni che intonano marce in mi bemolle, mentre i Rom accendono falò e distribuiscono 'nduja e pitte fumanti per unire il palato alla preghiera. E poi i fuochi d'artificio, un'esplosione cromatica che illumina il cielo come un miracolo laico, segnando il ritorno delle statue al santuario. Non mancano le bancarelle con ceramiche griko, stand gastronomici dove il peperoncino piccante si mescola a preghiere sussurrate, e balli che durano fino all'alba del 27, quando la messa conclusiva benedice la comunità stanca ma rigenerata.

Riace, con i suoi Bronzi del V secolo a.C. – guerrieri di bronzo riemersi nel 1972 come un dono del dio mare – è un luogo di miracoli laici e sacri. I santi medici, con il loro culto anargyrico, riecheggiano i Dioscuri o Asclepio, divinità pagane della medicina, in un sincretismo che la Chiesa bizantina seppe domare senza estirpare. Oggi, in un'Italia ferita da spopolamento e migrazioni interne – basti pensare agli emigrati riacesi a Santena, in Piemonte, che dal 1965 replicano la festa per non perdere le radici con una processione che diventa atto di resistenza. I Rom, spesso emarginati, vi trovano cittadinanza simbolica: nei loro balli, nei loro ex voto, affermano un posto nel "noi" calabrese, sfidando stereotipi con una devozione che unisce sangue gitano e litanie latine. È un rito di guarigione collettiva, dove il corpo sociale, malato di divisioni, si ricompone: il mare che bagna lo scoglio di Cosma lava via le paure, i canti griko tessono fili tra Oriente e Occidente, e le tarantelle scacciano il veleno della solitudine.

La festa di Riace è un invito a ricordare che l'antropologia della fede è storia viva, pulsante come un cuore sotto l'orma di un santo sul basalto. Mentre il 2025 volge al termine, con le sue ordinanze comunali per la safety che vegliano su processioni millenarie, mi chiedo: in un mondo di distanze digitali, quante Riace ci vogliono per curare l'anima collettiva? Andateci, un settembre qualunque, e lasciate che i gemelli taumaturghi vi sfiorino il braccio. Guarirete, forse, o almeno danzerete con i fantasmi del Mediterraneo, in un girotondo eterno di grazia e di sudore.
*documentarista