Vengo dopo il Tg: così Occhiuzzi su LaC ridà voce a una tv perduta che non urlava e faceva compagnia
Partito il nuovo format che subito dopo il nostro telegiornale riporta la leggerezza nelle case dei telespettatori rendendo omaggio a Renzo Arbore e al suo modo di fare televisione garbato e intelligente
«Dopo 46 anni di carriera è forse arrivato il momento che io faccia un Tg". Con questa frase Francesco Occhiuzzi inaugura la sua nuova trasmissione. Racconta, con gioco e scherzo, di aver telefonato i vertici televisivi affinché gli affidassero un telegiornale, dall'editore Maduli, passando per il direttore Laratta, la dottoressa Falduto e il direttore Cilurzo. E alla fine l'idea è arrivata.
C’è una soglia che separa la cronaca dal sogno, il reale dal possibile. Francesco Occhiuzzi la attraversa ogni giorno, subito dopo il telegiornale di LaC Tv – LaC News24, inaugurando con "Vengo dopo il Tg", un format che si offre al pubblico come un respiro lungo, un intervallo di grazia dopo la fatica della realtà. È un passaggio simbolico e quasi liturgico: la notizia — con il suo peso di dolore, di emergenze, di numeri — cede il passo alla leggerezza, quella «leggerezza della quale si deve essere capaci, non di piuma ma di pensiero», come la definiva Italo Calvino. Francesco Occhiuzzi, con la sua trasmissione, si arruola tra le fila della leggerezza. Una missione quasi profetica, quella di andare in onda subito dopo la cronaca del telegiornale.
In questo spazio di alta televisione, Occhiuzzi si muove con l’eleganza sobria tipica dei grandi maestri del piccolo schermo. Al pianoforte il maestro Sorrentino — presenza discreta e necessaria — accompagna la scena con tocchi che sanno di memoria e di swing, mentre scorrono Rvm dei varietà del passato e della scena contemporanea, frammenti di un mosaico che ricompone la storia della televisione italiana. Il titolo stesso, "Vengo dopo il Tg", non è un caso ma un omaggio esplicito a Renzo Arbore, tra gli inventori di una televisione garbata e intelligente, ironica e mai volgare, che sapeva giocare con la cultura popolare elevandola a rito collettivo. Sul palcoscenico di "Vengo dopo il Tg" neppure gli outfit sono casuali. Occhiuzzi, il maestro Sorrentino e gli ospiti, il più delle volte, indossano giacche ricercate: un degno omaggio, appunto, a quel genio della scena televisiva di Renzo Arbore.
Il paragone con Fantastico, il grande varietà di Rai1 che negli anni Ottanta riuniva le famiglie italiane, è inevitabile. Come Pippo Baudo, signore e regista del palcoscenico, Occhiuzzi domina lo spazio televisivo con una compostezza quasi musicale. Se Baudo rappresentava la solennità del conduttore “classico” — la voce ferma, il gesto misurato, il controllo assoluto della scena — Occhiuzzi ne rinnova la figura in chiave contemporanea: il suo carisma è più confidenziale, la sua presenza più calda, la sua eleganza cerimoniosa e calorosa. Entrambi, tuttavia, condividono la stessa dote rara: la capacità di tenere viva l’attenzione del pubblico senza mai alzare la voce.
Anche qui, ci sono giochi a premio, dialoghi con il pubblico da casa, telefonate che spezzano la distanza. Ma il tono è diverso: non la grandeur dei varietà Rai, ma una dimensione più intima, più sincera.
Con costi nettamente inferiori rispetto agli show del piccolo schermo nazionale, Occhiuzzi riesce a dar vita a un prodotto magistrale, degno di platee ben più ampie. L’eleganza e la sobrietà diventano la cifra stilistica di un conduttore che conosce il valore del ritmo, della pausa, del sorriso.
Come in "Mille Luci" di Antonello Falqui, condotto da Mina e Raffaella Carrà, o in "Papaveri e Papere" di Guardì, condotto da Pippo Baudo e Giancarlo Magalli, anche qui la musica è il centro vitale della narrazione. Le canzoni, gli archivi musicali, i dialoghi con la memoria collettiva restituiscono al pubblico l’emozione pura del ricordo. Ma Occhiuzzi non si limita a riprodurre un modello: lo reinventa. La sua voce, con una dizione impeccabile — calda, avvolgente, da autentico uomo di radio — si muove tra racconto e canto, tra ironia e riflessione, e rende la trasmissione un’esperienza quasi teatrale. È come se, per un’ora, la televisione tornasse a essere un luogo poetico.
«C’è un tempo per l’informazione e un tempo per la canzone», direbbe Arbore. E "Vengo dopo il Tg" è proprio questo: una risposta alla durezza del presente attraverso la grazia del gesto lieve. Un programma non casuale, ma necessario. Dopo la cronaca, la carezza; dopo la notizia, la nota.
Occhiuzzi compie una piccola grande missione: riportare la leggerezza nelle case dei telespettatori. Ma non una leggerezza superficiale o evasiva — piuttosto, quella “leggerezza profetica” che sa intuire che, per vivere bene, occorre saper sorridere. E in un tempo in cui la televisione sembra spesso smarrire la propria anima tra l’ansia della novità e il clamore dell’effimero, "Vengo dopo il Tg" ci ricorda che la vera modernità può abitare anche nella semplicità.
Così, tra una melodia e una battuta, tra un frammento d’archivio e un gioco con il pubblico, Francesco Occhiuzzi ridà voce a una televisione perduta: quella che non gridava, che sapeva ascoltare, che faceva compagnia. E lo fa con lo stile di chi conosce la tradizione ma non la imita, la rievoca per reinventarla.
Nel suo modo di condurre c’è un riflesso di Baudo, un sorriso d’Arbore, ma anche qualcosa di nuovo: una compostezza umana, una cultura artistica e musicale che affiora senza ostentazione. Occhiuzzi è un interprete del presente con l’anima dei maestri di un tempo.
E così, mentre scorrono le note del maestro Sorrentino e la serata si accende di ricordi, Vengo dopo il Tg diventa un piccolo miracolo televisivo: una stanza di luce dopo il telegiornale, un luogo dove la musica consola, la parola accompagna e la leggerezza — finalmente — insegna a vivere.
«E allora mettete dei fiori nei vostri cannoni», cantavano "I Giganti" negli anni '60, ricordandoci che anche nei tempi più duri la bellezza resta un atto di resistenza. Ed è forse questa la vera essenza dello show di questo show televisivo: un fiore posato sul tavolo della cronaca, un invito gentile a tornare umani.
Perché solo chi sa sorridere del mondo, può anche sperare di salvarlo.