Viaggio alla scoperta di Mino Reitano, il ricordo del cantante che si sentiva l’ambasciatore della Calabria
La pioggia ad Agrate, il silenzio e il ricordo di un uomo dal cuore gentile e dall’anima di poeta. Il grande interprete è andato via 15 anni fa, ma chi l’ha amato non ha mai smesso di cantare le sue canzoni. E la sua voce è ancora una carezza che non va più via
È una mattina brumosa e umida di aprile ad Agrate Brianza, con la primavera che sembra non volerne sapere di iniziare. Il cielo è basso, la pioggia cade fine e insistente sui marciapiedi lucidi e sui giardini del Villaggio Reitano, un complesso di villette raccolte intorno a una piccola strada che porta il nome di Mino. L’intitolazione non è solo simbolica: è un omaggio sentito, fisico, a un uomo che qui ha costruito non solo la sua casa, ma la sua famiglia, la sua comunità, il suo approdo. Nel 1969, proprio con il padre Rocco e i fratelli, aveva acquistato quel terreno alla periferia di Milano dove nacque una sorta di comune musicale e affettiva, un microcosmo di vita vera.
Qui, sotto i nuvoloni che lasciano intravvedere una Pasqua bagnata, inizia un viaggio ideale alla (ri)scoperta di Mino Reitano. Sono passati quindici anni dalla sua morte, eppure la sua presenza è ovunque: nelle voci degli anziani che lo ricordano come un vicino gentile, nei racconti della gente per strada. Di chi porta un fiore sulla sua tomba, al cimitero, dove riposa dal 27 gennaio 2009, il giorno in cui morì stroncato da un cancro, tenendo per mano la moglie Patrizia con accanto le figlie Giuseppina e Grazia, i fratelli, i nipoti.
Mino Reitano oggi avrebbe 80 anni. Da questo villaggio brianzolo, così distante da Fiumara, il suo paese natale in provincia di Reggio Calabria, si può partire per ripercorrere la parabola di un artista che ha segnato una stagione musicale italiana e che oggi, nonostante l’ombra dell’oblio gettata dalla cultura ufficiale, continua a vivere nei cuori e nelle voci di chi ascolta senza snobismi.
Beniamino Reitano nasce il 7 dicembre 1944. È figlio di un trombettista e cresce in una famiglia dove la musica è pane quotidiano. Frequenta il conservatorio, suona pianoforte e violino nell’Orchestra Fata Morgana. Insieme ai fratelli Franco, Antonio e Vincenzo e a Franco Minniti, Mino Reitano ha esordito come musicista rock'n'roll. Nel 1961 Reitano si è presentato per la prima volta come solista, con il 45 giri «Tu sei la luce/Non sei un angelo».
Poi la sua carriera prende slancio ad Amburgo, dove suona nei locali del porto alternandosi con i Beatles prima che diventassero leggenda. Un dettaglio che da solo basterebbe a restituire la caratura di un artista che troppo spesso è stato ridotto a cliché melodici e popolari che non gli appartengono.
“In ricordo di Franco e Mino Reitano”, l'evento alla RegioneTanto più che Mino aveva un bellissimo rapporto con i quattro di Liverpool. E lui amava raccontare un aneddoto: quando McCartney arrivò come ospite a Sanremo nel 1988, gli venne detto che c’era in gara anche una sua vecchia conoscenza, Mino Reitano. “Reitano who? Non conosco nessun Reitano”, borbottò il baronetto. Ma poi l’equivoco fu chiarito. Ad Amburgo Mino si esibiva con lo pseudonimo di Benjamin. E neppure i Beatles, allora, si chiamavano ancora Beatles. Pete Best suonava la batteria. Logico che a McCartney, il nome Mino Reitano non dicesse nulla. Lo aveva sempre chiamato Benjamin!
Nel 1966 firma con la Dischi Ricordi e nel 1967 debutta al Festival di Sanremo con "Non prego per me", scritta da Mogol e Lucio Battisti. È l’inizio di una lunga carriera costellata di partecipazioni a Sanremo, a "Un disco per l’estate", e di successi popolari come "Era il tempo delle more", "Italia" e "La mia canzone". Ma Mino non è solo interprete: scrive per altri, e scrive bene. Tra i suoi brani spicca "Una ragione di più", firmato insieme a Franco Califano, portato al successo da Ornella Vanoni.
E nel 1976 arriva anche la consacrazione da parte della Signora della canzone italiana: Mina incide un suo pezzo, "Terre lontane", nell’album doppio Singolare/Plurale. Per Reitano è una gioia immensa, il riconoscimento più autorevole della sua sensibilità compositiva, della sua capacità di unire melodia e racconto, passione e nostalgia.
Nel 1975 Mino Reitano pubblicò il disco «Dedicato a Frank». E Frank era quel Sinatra con cui aveva duettato qualche tempo prima durante un concerto a Miami. Rispose picche quando il grande crooner gli propose di trasferirsi negli Stati Uniti. E declinò l'invito: per lui le radici erano più importanti di qualsiasi successo. E poi, in Italia, era una star di prima grandezza.
Mino Reitano: tredici anni fa ci lasciava il “ragazzo di Calabria”, voce indiscussa della canzone italianaAveva rapporti stretti con Morandi, Ranieri, Little Tony, Celentano. Adriano veniva spesso a giocare a pallone ad Agrate. Del resto era facile diventare suoi amici. Dolce, affabile, simpatico, non sgomitava mai. I colleghi amavano stare con lui. Tutti lo volevano: nel 1973 aveva anche scritto una canzone per lo Zecchino d'Oro: «La sveglia birichina», poi risultata vincitrice dell'edizione.
Insomma Mino era considerato un cantante popolare, certo. Il suo stile, oggi, farebbe sorridere: pantaloni a zampa d’elefante, camicie sgargianti, colletti a punta e quella teatralità tutta anni ’70 che lo rendeva inconfondibile. Un’estetica che sfiorava il kitsch, certo, ma che era anche l’espressione sincera di un’epoca in cui l’eccesso era parte integrante dello spettacolo. Mino Reitano era così: un po’ tamarro forse, ma mai volgare. Colorato, esagerato, autentico.
Ma sarebbe semplicistico e ingiusto limitarsi a quello, perché era anche un autore di primo livello. Uno con la schiena dritta. Cantava l’amore, quello romantico, ma anche quello per la patria, per le radici, per la famiglia. Scriveva canzoni che parlavano a tutti, perché non aveva paura di essere semplice. Eppure, col tempo, è stato spinto ai margini. Dimenticato dai giovani, ignorato dalla critica. Ma d’altra parte, quanti dei giovani oggi conoscono Fabrizio De André, Lucio Dalla, Lucio Battisti? Nella retorica del nuovo, della canzone d’autore impegnata, della musica indie che si guarda l’ombelico, uno come lui era diventato scomodo. Era troppo diretto, troppo limpido. Troppo umano.
Eppure aveva una gran voce, un’estensione vocale di oltre tre ottave. Però usava un registro medio. Tenorile. A voce piena. Ed era pieno di sorprese, capace di guardarsi intorno per raccogliere nuove idee e nuovi stimoli. Nel 1995 Mino Reitano aveva lasciato tutti a bocca aperta realizzando una cover in lingua italiana del famoso brano dei punk rocker Green Day, «Basket Case», intitolata «Mino, dove vai?». La canzone non fu mai pubblicata, ma lui la eseguì dal vivo in una storica puntata del Maurizio Costanzo Show.
Nel suo percorso c’è tutto: il riscatto dal Sud povero, il talento cresciuto nei conservatori, l’Europa vissuta con fame di musica, le platee internazionali, la televisione, i dischi, il successo. Si sentiva ambasciatore di Calabria nel mondo, come dimostra l’album “Omaggio alla mia terra”. E l’essere calabrese era un punto d’orgoglio da portare appuntato sul petto.
Fu un grande della musica italiana. Poi, brutale, arrivò il declino, non artistico ma mediatico, la cancellazione lenta da un mondo musicale che aveva deciso che Reitano era fuori moda, un “popolarone” da dimenticare. Un destino toccato a molti cantanti di quell’epoca. D’altra parte, se non fosse per la recente fiction Champagne, nessuno sentirebbe più parlare di Peppino di Capri. O di Nicola di Bari e di Toto Cutugno. Al Bano? È un po’ più noto perché continua ad andare sulle prime pagine dei giornali di gossip con Romina.
Un destino ingrato. Perché chi ha conosciuto Mino Reitano, chi lo ha ascoltato davvero, lo ricorda come un artista vero. Gentile, umile, innamorato della musica e della vita.
Ad Agrate, oggi, si respira ancora quell’atmosfera. Il Mino’s Cafè, il luogo del ricordo con le pareti coperte di foto in bianco e nero, di vinili, di locandine, ha chiuso i battenti. Ma nelle parole di chi lo conosceva si intravede ancora la traiettoria di un uomo che ha vissuto la musica come missione e la vita come dono. E che, a distanza di quindici anni dalla sua morte, continua a parlare a chi ha orecchie per ascoltare davvero.