La musica dal vivo in Italia è una bolla? Prezzi alle stelle, club deserti e stadi gonfiati
Dietro il boom di presenze e i “tutto esaurito” si nasconde un mercato drogato da marketing e gigantismo. A rischio la sopravvivenza dei piccoli locali
Stadi pieni, palazzetti sold out in pochi minuti, annunci trionfali e cifre record. Ma dietro la vetrina scintillante della musica dal vivo italiana si muove una macchina che, per molti addetti ai lavori, non è più sostenibile. L’inchiesta di Repubblica smonta il mito di un settore in salute: “gigantismo” è la parola chiave, con artisti che puntano sempre più in alto, saltando i passaggi intermedi della gavetta. E intanto i club chiudono, i festival minori scompaiono e il pubblico paga il conto.
A raccontarlo sono promoter, cantautori e manager, come Giorgio Riccitelli, direttore artistico del Medimex: «È un meccanismo marcio, drogato da marketing e numeri gonfiati». Un esempio? I finti sold out. Si sceglie uno stadio, si mette in vendita la capienza necessaria a coprire i costi, poi si chiudono settori e si regalano biglietti per dare l’illusione del “tutto esaurito”. L’effetto collaterale è un ritorno d’immagine enorme: più cachet, più date vendute, più visibilità mediatica.
Non tutti, però, ci riescono. La stagione 2024-2025 ha visto annullamenti eccellenti, come Tony Effe o i CCCP, e ridimensionamenti forzati, con concerti spostati in location più piccole. In altri casi, per salvare lo show, i biglietti sono stati svenduti all’ultimo minuto. «Sono stati fatti calcoli sbagliati, ma il problema è a monte: l’avidità di manager, agenzie e, in parte, degli stessi artisti», denuncia Claudio Trotta, storico promoter di Springsteen e AC/DC.
Il boom post-pandemia ha spinto molti a tentare il salto: chi riempiva i club è passato ai palasport, chi i palasport ha provato gli stadi. Con risultati alterni. Vasco Rossi, Ultimo, Mengoni, Pinguini Tattici Nucleari e Max Pezzali restano campioni di pubblico, ma non sempre l’esperienza per lo spettatore è all’altezza. A Imola, raccontano alcuni fan di Pezzali, «dal prato lontano dal palco non si sentiva nulla». Trotta non fa sconti: «Molti spazi non sono adatti, eppure li si usa lo stesso. Gli spettatori vengono spremuti su tutto: biglietti, parcheggi, cibo. Serve trasparenza».
La trasparenza manca anche sui conti reali. Per Riccitelli, il gigantismo è figlio diretto della pandemia: «I ristori hanno favorito le multinazionali, i voucher per i concerti annullati hanno azzerato le perdite, mentre i piccoli club restavano fermi senza incassi. Dal 2022, i grandi hanno divorato i piccoli». Un effetto domino che ha lasciato a terra una rete di locali storici, specie in provincia, riducendo lo spazio per chi deve crescere.
Motta, tra i nomi di punta della scena alternativa, ammette: «È vero che ci sono artisti mal consigliati, ma la responsabilità è anche nostra. Senza la gavetta nei club non impari a stare su un palco. Io, prima di Sanremo, ho fatto centinaia di concerti in piccoli spazi: senza quell’esperienza, oggi non sarei qui».
C’è anche chi rifiuta il passo più lungo della gamba. Calcutta, intervistato da Repubblica, lo ha detto chiaramente: «Non ho la fame di suonare in posti enormi. Già in molti palazzetti si sente male, figuriamoci negli stadi». Una posizione controcorrente, mentre il mercato spinge nella direzione opposta.
Edoardo Bennato, primo italiano a esibirsi a San Siro nel 1981, ricorda un’altra epoca: «Ci arrivai dopo 14 date in altri impianti, solo con la spinta del pubblico. Ora è una corsa a chi arriva prima, ma così si bruciano carriere».
Il rischio, avvertono molti, è che la bolla scoppi. Alcuni, come Federico Zampaglione dei Tiromancino, raccontano di giovani artisti finiti a lavorare gratis per anni, sommersi dai debiti accumulati per concerti troppo ambiziosi. Altri vedono un progressivo impoverimento culturale: il pubblico non esce più per scoprire nuovi nomi, e l’offerta si appiattisce sugli stessi dieci artisti capaci di riempire gli stadi.
Per Trotta, la cura è chiara: «Dobbiamo ripartire dal basso. Dalle scuole di musica, dai club, da un pubblico meno passivo e istituzioni che investono. I numeri degli stadi non salveranno un’industria che vive dodici mesi l’anno».