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04/07/2025 ore 06.47
Cronaca

Dietro le sbarre dell’Italia: Alemanno e i dimenticati, la vergogna che ignoriamo

La lettera dell’ex sindaco di Roma, letta in aula da un senatore del Pd, è diventata megafono di una verità che conosciamo tutti ma ci ostiniamo a ignorare: il carcere, così com’è, è una fabbrica di dannati

di Francesco Vilotta

C’è una porta di ferro che si chiude ogni giorno dietro migliaia di corpi. E poi dietro di noi. La chiudiamo noi, con la complicità di un silenzio feroce. Eppure, ogni tanto, una voce rompe la cortina di cemento. Stavolta è toccato a Gianni Alemanno — ex sindaco, ex ministro — leggere dal fondo di una cella la condanna più dura: non alla sua persona, ma a un Paese che fa finta di non sapere che dentro le sue carceri si continua a morire di pena.

La sua lettera, letta in Senato da un senatore del Pd, è diventata megafono di una verità che conosciamo tutti, ma che ci ostiniamo a ignorare: il carcere, così com’è, è una fabbrica di dannati, non di uomini liberi. Una scuola di delitti futuri, non di redenzione.

Non c’è niente di nuovo in questa vergogna, se non l'indifferenza con cui continuiamo a sopportarla. L’Italia è già stata condannata più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per «trattamenti inumani e degradanti». È successo nel 2013 con la sentenza Torreggiani: lo Stato italiano costretto a risarcire detenuti ammassati come bestie, senza spazio, senza igiene, senza diritti. Una condanna non solo giuridica, ma morale. Da allora? Nulla o quasi. Celle sovraffollate, pochi agenti penitenziari, infermerie fantasma, suicidi come respiri interrotti — solo nel 2023 sono stati 69, uno ogni cinque giorni.

Alemanno ha una voce, un nome, una storia. Ha il privilegio di essere ascoltato. Ma la sua cella è uguale a quella di migliaia di altri corpi senza volto: migranti, tossicodipendenti, piccoli spacciatori, poveri di diritti e di avvocati. Dentro quelle mura, ogni garanzia si sfalda come intonaco marcio. Chi ha sbagliato paga due volte: paga per la colpa, poi per il degrado, poi per la violenza che lo riplasma. Il carcere non riabilita, addestra. Non guarisce, infetta.

Ogni tanto una notizia squarcia la coltre: una ragazza trans finita in un carcere maschile, stuprata notte dopo notte come se fosse un diritto di preda. Un altro suicidio. Un’altra denuncia. Poi silenzio. È un’Italia che nasconde la polvere sotto il tappeto di un garantismo di facciata. Una politica che promette riforme e si ferma all’uscio del penitenziario, troppo impegnata a fare comizi sulla “sicurezza”. Ma di quale sicurezza parliamo, se consegniamo chi ha sbagliato in pasto a un inferno che lo renderà peggiore, non migliore?

Chi lo dice? Lo scrive, da decenni, chi ha fatto del carcere la sua vita. Riccardo Arena, Gennaro Francione, e poi ancora Luigi Pagano — che per quarant’anni ha diretto le carceri di San Vittore e Opera, raccontando le brutture indicibili di celle buie, corpi senza speranza, abusi mai puniti.

Ma che ne sappiamo noi, da fuori? Ci basta sapere che “stanno dentro”. Dentro dove? Dentro un altrove che ci assolve. Noi, i liberi, mentre un detenuto su tre è un migrante povero, spesso preda di reti criminali che lo risputano al confine tra sbarco e spaccio.

E allora, la domanda di Alemanno dovrebbe diventare la nostra: ha ancora senso il carcere, così com’è? O è solo una discarica sociale dove gettiamo quello che non vogliamo vedere? Se la pena non redime, se la detenzione non cura, se la giustizia non umanizza, allora la cella non è più una risposta: è un fallimento. E lo Stato, ogni volta che chiude quella porta dietro un corpo fragile e colpevole, la chiude anche dietro la propria coscienza.

Non serve liberare Alemanno — lui la sua voce ce l’ha già. Serve restituire parola a chi non ce l’ha mai avuta. Ai dimenticati, agli invisibili, ai dannati di una Repubblica che si proclama civile solo fuori dalle sbarre.

E allora sì: apriamo quella porta. Non per far uscire i colpevoli, ma per far entrare la nostra vergogna. E, finalmente, provare a guarirla.