«Gioia Tauro troppo permeabile alla ‘ndrangheta: Piromalli un lupo tra gli agnelli»: la Dda chiama cittadini e istituzioni
Il procuratore di Reggio Borrelli in conferenza stampa: «Dopo 22 anni di carcere il boss ha riassunto il comando ristabilendo le regole». Il sostituto Musolino: «Comunità incapace di resistere alle dinamiche criminali»
«Si tratta di un’attività di particolare rilievo, perché oltre alle misure cautelari personali è stato dato esecuzione anche a misure di carattere patrimoniale. Abbiamo scelto di operare su un doppio piano: sequestri preventivi e misure di prevenzione, colpendo beni diversi e riconducibili anche a reati ormai prescritti. È stato così possibile incidere in maniera ancora più chiara sul patrimonio della cosca». Così il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Borrelli, ha sottolineato la portata dell’operazione di oggi. «L’indagine ha documentato come Giuseppe Piromalli, tornato in libertà dopo 22 anni di carcere, abbia immediatamente riassunto il comando, ristabilendo le regole interne del sodalizio e ricomponendo contrasti familiari – ha rimarcato - Ha riscritto le modalità di funzionamento della cosca sul territorio, imponendosi nuovamente come vertice riconosciuto».
‘Ndrangheta, il boss Piromalli truccava le aste per riprendersi i beni confiscati: ecco i NOMI degli arrestatiIl procuratore aggiunto Stefano Musolino ha poi spiegato: «Questa indagine si inserisce nella scia di quelle che hanno già colpito la cosca Piromalli, ma segna un salto di qualità perché unisce provvedimenti cautelari personali e misure patrimoniali e di prevenzione. Piromalli ha indossato quello che lui stesso ha definito “il manto del lupo”: ma per indossare il manto del lupo servono tanti agnelli, altrimenti il lupo non ha effetto. La sua autorevolezza criminale non è mai stata messa in discussione. Quello che più preoccupa non è solo l’aspetto penale – ha aggiunto Musolino - ma la mollezza e la permeabilità del tessuto sociale e imprenditoriale di Gioia Tauro. Giuseppe Piromalli è stato subito riconosciuto come vertice assoluto, a testimonianza di una comunità incapace di resistere a queste dinamiche. Il comunicato diffuso dal Comune è anodino: mi auguro che, letti gli atti, le istituzioni comprendano meglio la gravità della situazione».
Il generale di brigata Vincenzo Molinese, comandante provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria, ha evidenziato la pericolosità delle condotte emerse: «Abbiamo registrato una particolare aggressività da parte degli appartenenti alla cosca, soprattutto nelle condotte estorsive. Nonostante l’età anagrafica, Giuseppe Piromalli ha dimostrato una veemenza criminale intatta. Alcuni passaggi intercettati sono stati duri da ascoltare: imprenditori costretti a subire richieste senza alcuna possibilità di replica».
Il generale ha richiamato anche episodi che mostrano il radicamento del clan: «Non parliamo solo di estorsioni e aste giudiziarie. In un caso, per ragioni personali e familiari, si è persino tentato di spostare una classe scolastica frequentata da una nipote del boss. È la dimostrazione della pervasività del controllo mafioso sul territorio, capace di incidere anche sulla vita quotidiana». E ha concluso: «La scarcerazione di un capo carismatico come Piromalli ha avuto effetti immediati, ridando compattezza e forza al clan. Ma il contraltare è la presenza costante dello Stato: forze dell’ordine e magistratura non arretrano di fronte a questo potere intimidatorio».
‘Ndrangheta, blitz contro i Piromalli con 26 arresti: le mani del clan sugli appalti. In manette il boss 80enne della coscaIl tenente colonnello Berlingeri ha posto l’accento sull’aspetto patrimoniale: «L’indagine ha seguito due direttrici: da un lato l’accertamento delle condotte penalmente rilevanti, dall’altro l’aggressione ai patrimoni illecitamente accumulati. Durante le perquisizioni odierne sono stati rinvenuti oltre 150mila euro in contanti nelle abitazioni dei soggetti coinvolti». Berlingeri ha sottolineato che si tratta di un riscontro importante: «Abbiamo verificato come le estorsioni venissero corrisposte prevalentemente in denaro contante. Quelle somme venivano poi reinvestite in attività di riciclaggio e autoriciclaggio, alimentando un circuito illecito che rafforzava il potere economico della cosca».