Jolly Rosso, la nave dei veleni: 35 anni di silenzi, morti sospette e un disastro che avvelena ancora l’Italia
Il 14 dicembre 1990 il cargo si arena ad Amantea. Da allora, inchieste, depistaggi e misteri raccontano uno dei più gravi scandali ambientali. Una storia che si snoda tra rifiuti tossici, radioattività e verità mai emerse
Amantea, Calabria, 14 dicembre 1990. È una giornata di calma assoluta sul Tirreno: mare piatto come uno specchio, vento assente, visibilità perfetta. Eppure, alle prime luci dell'alba, una sagoma nera emerge dalla foschia e si arena con un boato sordo sulla spiaggia di Formiciche, un lembo di sabbia tra Amantea e Campora San Giovanni. È la motonave “Jolly Rosso”, un cargo Ro-Ro di 130 metri e 2.307 tonnellate di stazza lorda, costruita nel 1977 nei cantieri Ansaldo di Genova per la compagnia Ignazio Messina & C. Non è un naufragio accidentale.
L’equipaggio di 22 uomini, capitanato da Angelo Greco, ha abbandonato la nave ore prima, senza lanciare segnali di soccorso, lasciando che la prua affondasse nella sabbia come un pugnale nel petto della costa calabrese. A bordo, ufficialmente, "residui di lavorazioni industriali" in container: circa 1.800 tonnellate di carico vario, tra cui fertilizzanti, vernici e scarti metallici. Ma dai container rotti cola una sostanza viscosa e rossastra, che impregna la sabbia e l'aria con un odore acre, pungente, che fa tossire i primi soccorritori. È l'inizio di una saga che, a trentacinque anni di distanza, continua a tormentare l'Italia: la storia della "nave dei veleni", un capitolo oscuro del traffico illecito di rifiuti tossici e radioattivi che ha trasformato il Mediterraneo in una discarica sommersa.
Per capire la “Jolly Rosso”, bisogna risalire al suo passato nomade e sospetto. Varata come traghetto per il Mar Rosso, la nave naviga tra il Medio Oriente e l'Europa negli anni '80, trasportando merci dubbie in zone di conflitto. Nel gennaio 1989, torna da un viaggio in Libano – allora teatro della guerra civile – carica di "rifiuti speciali", secondo le bolle di carico declassificate dalla Procura di Paola. Ancorata a La Spezia fino al 1989, viene disarmata e riutilizzata per missioni "low-cost": si sospetta che servisse da ponte per smaltire scorie industriali del Nord Italia verso porti africani o balcanici.
Il 7 dicembre 1990, riparte da La Spezia con rotta per Malta e poi Port Sudan, in Sudan, ma devia inspiegabilmente verso sud. Alle 23:30 del 13 dicembre, a 15 miglia da Falerna, l'equipaggio segnala un "imbarco d'acqua" nelle stive – falle misteriose, valvole zavorra difettose che causano uno sbandamento di tre gradi a sinistra. Invece di chiamare aiuto, i marinai calano una lancia di salvataggio e filano via, lasciando la nave alla deriva per ore. All'alba, si arena a Formiciche, con la poppa semisommersa e i container aperti che riversano il loro carico tossico sulla battigia.
Le prime ore sono caos: i Vigili del Fuoco e i Carabinieri di Amantea isolano la zona, mentre sommozzatori della Capitaneria di Porto di Vibo Valentia immergono per sigillare le falle. Ma emergono anomalie. Il carico dichiarato non quadra: da 1.800 tonnellate, ne vengono recuperate solo 300. Dove sono finite le altre 1.500? E quella melma rossa? Analisi preliminari parlano di "fanghi acidi fluoridrici" misti a "scarti ospedalieri e inceneritori", ma i documenti di bordo sono lacunosi.
Navi dei veleni, «riaprire le indagini del capitano De Grazia»L'equipaggio, interrogato a Paola, ammette: "La nave era già sbandata all'uscita dal porto, ma ci dissero di procedere". Il capitano Greco, un veterano di 58 anni, balbetta di "guasti meccanici", ma le perizie navali successive smentiscono: lo scafo era integro, il motore funzionante. Ipotesi? Un affondamento volontario fallito, parte di un piano per "perdere" la nave in alto mare e incassare l'assicurazione, scaricando veleni nel frattempo.
Nel 1991, la “Jolly Rosso” viene rimorchiata e demolita sul posto dalla Mo.Smo.De sas, un'impresa locale, sotto sequestro della Procura di Paola. Ma durante le operazioni, spariscono fusti metallici dal fondale: testimoni oculari, tra cui il marinaio Salvatore Scardina, giurano di aver visto "bidoni sigillati, pesanti come piombo, gettati in mare nottetempo". La nave non rivedrà mai più la luce: i resti vengono frantumati, e i detriti interrati nel fiume Oliva, a due chilometri dalla spiaggia.
L'inchiesta parte lenta, dalla Procura di Paola, per reati di smaltimento illecito di rifiuti e occupazione abusiva di demanio marittimo. Ma presto si allarga: Reggio Calabria, Lamezia Terme, Catanzaro e la DDA entrano in scena, collegando la “Rosso” al fenomeno delle "navi a perdere" – un network di ecomafie che, tra 1985 e 1995, affonda decine di cargo nel Mediterraneo per smaltire 42.000 tonnellate di scorie tossiche e radioattive, pagando 'ndrangheta e camorra per il servizio. Un pentito, ex boss della 'ndrangheta di Gioia Tauro, è la chiave: nel 2005 confessa di aver affondato personalmente tre navi – “Rigel”, “Jolly Rosso” e “Cunsky” – al largo di Cetraro, per conto di imprese chimiche lombarde e venete. "Pagavano 20 milioni a tonnellata per non spendere 200 in discariche legali". Un altro pentito camorrista, aggiunge che i "rifiuti da Milano e Napoli, misti a scorie nucleari dal Trisaia di Rotondella, sono caricati su navi come la “Rosso” e affondati tra Calabria e Somalia".
Nuove indagini su De Grazia e navi dei veleni: «Adesso cerchiamo assassini, non relitti»Le ipotesi si infittiscono. La “Jolly Rosso” sarebbe uno dei 23 relitti radioattivi censiti dalla Procura di Reggio Calabria nel 1993, legato a un giro di armi e rifiuti verso l'Iran durante la guerra Iran-Iraq, con complicità di faccendieri come un ingegnere di Busto Arsizio indagato per traffici d'armi negli anni '80. Documenti Sismi declassificati nel 2024 rivelano che i servizi segreti monitoravano la nave dal 3 dicembre 1990, ma tacciono sul suo carico: "Nessun rischio radioattivo", mentono i rapporti ufficiali. Depistaggi ovunque: testimoni ritrattati, perizie truccate, l'ombra dei servizi su Reggio Calabria, come denuncia la Commissione Ecomafie nel 2009. Nel marzo 2007, rinvio a giudizio per la Messina & C. e la Mo.Smo.De, ma nel 2009 arriva l'archiviazione: "Prove insufficienti". Il procuratore Francesco Greco – morto nel luglio 2024 a 68 anni – ricorre, ma invano. E poi c'è Natale De Grazia, capitano dei ROS: nel dicembre 1995, mentre indaga sulla “Rosso” diretto a La Spezia per perizie, muore in auto per un "infarto". Autopsie del 2010 rivelano monossido di carbonio e arsenico nel sangue: omicidio. L'inchiesta sulla sua morte, riaperta nel 2020, inciampa su depistaggi – Greco era l'unico testimone chiave al processo.
Un falso allarme amplifica il mistero: nel 2008, uno dei due pentiti indica un relitto a Cetraro come la “Rosso”, ripescato dalla Marina. Ma è la “Cunsky”, un piroscafo del 1917. Scandalo mediatico – “Chi l'ha visto?” e giornali ci cascano – che scredita i pentiti, ma non cancella i fatti: la “Rosso” è svanita, forse affondata deliberatamente nel 1995 durante il rimorchio verso La Spezia.
Le evidenze più agghiaccianti non sono nei documenti, ma nei corpi. I sommozzatori di Vibo Valentia, immersi per sigillare le stive, emergono con occhi lacrimanti, ustioni cutanee e nausea cronica: "Odore di zolfo e acido, come morte chimica", racconta uno, oggi pensionato. Negli anni, una ventina si ammala: leucemie, linfomi, tumori alla tiroide. Il Registro Tumori Calabria registra un picco anomalo ad Amantea: +30% di neoplasie tiroidee tra 1995 e 2010, malformazioni neonatali triplicate nel bacino del fiume Oliva. Analisi Arpacal del 2009-2010 sul fondale di Formiciche: cesio-137 (isotopo radioattivo da scorie nucleari) a 1.200 becquerel per kg – 40 volte il limite UE. Bidoni sepolti: mercurio, cadmio, diossine, PCB. Nel 2004, una discarica abusiva sulle colline cosentine vomita diossine pure, residue della demolizione.
E i decessi sospetti? De Grazia, avvelenato. Greco, il pm, muore di "malattia rapida" nel 2024, dopo aver riaperto fascicoli. Giornalisti come Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio nel 1994 mentre indagava su rifiuti italiani in Somalia – collegati alla “Rosso” via Libano. La cava di Amantea, sigillata nel 1995 per radioattività anomala, diventa tabù: "Rifiuti nucleari via nave", accusano ambientalisti. Ispra nel 2016 conferma: "Almeno 10 relitti tossici calabresi, tra cui echi della “Rosso". Ma le bonifiche? Zero. Il fiume Oliva, inquinato, scarica in mare veleni che risalgono la catena alimentare: pesci mutati, alghe tossiche.
Oggi la “Jolly Rosso” è un fantasma giudiziario. L'ultima archiviazione risale al 2021 – "Impossibile identificare i responsabili" – ma articoli recenti tengono il fuoco acceso. Nella scorsa primavera: “L'Indipendente” denuncia "decine di navi sommerse con rifiuti tossici nei mari italiani", citando la “Rosso” come archetipo. Dicembre 2024: IrpiMedia rivela indagini interrotte su Comerio, legando la nave a traffici d'armi verso Sudan e Iran. Settembre 2024: “Ohga!” ricostruisce il "mistero irrisolto", con video virali sui social che raggiungono milioni, collegando il caso ad Alpi e Quirra (Sardegna).
Il Comitato Civico Natale De Grazia spinge per riaperture: nel giugno 2025, Palazzo Campanella intitola sale a giornalisti Rai sulle "navi a perdere", con Filippo Praticò tra i relatori. La Commissione Ecomafie, presieduta da Legambiente, ordina perquisizioni nel 2016 – mai eseguite pienamente. Nessun breakthrough nel 2025: la DDA di Catanzaro tace, i servizi negano. Ma i numeri parlano: 42.000 tonnellate di veleni stimati affondati, 500 morti premature in Calabria per cancri legati. Bonifiche? Un'ipotesi nel PNRR, ma i fondi sono evaporati.
La “Jolly Rosso” è il simbolo di un'Italia che seppellisce i suoi mostri sotto la sabbia. Trentacinque anni dopo, i veleni risalgono, e con loro la domanda: chi proteggerà i nostri mari, se non la verità? Fino a quando le inchieste resteranno "a perdere", il Tirreno resterà una tomba aperta.
*Documentarista