Omicidio Chindamo, i macabri racconti di Ascone a Emanuele Mancuso: «Ci sono voluti 20 minuti per far sparire il corpo di Maria»
Il collaboratore in Corte d’Assise: «All’epoca non mi importava niente. Le cosche erano preoccupate per l’assedio delle forze dell’ordine». La «maniacalità» di “U Pinnularo” per le telecamere e il rapporto «’ndranghetistico» con i Mancuso
Quando è stata uccisa Maria Chindamo, imprenditrice di Laureana di Borrello scomparsa il sei maggio 2016, le cosche vibonesi erano in fermento. Della donna si era persa traccia davanti alla sua tenuta agricola a Limbadi, storico feudo della cosca Mancuso. A respirare l’agitazione delle consorterie, che facevano tutt’uno col proprio gruppo familiare, era anche Emanuele Mancuso, all’epoca dedito principalmente al traffico di droga, dal 2018 collaboratore di giustizia.
Il rapporto «’ndranghetistico» di Ascone coi Mancuso
Ieri, nel corso di un lungo interrogatorio nell’aula di Corte d’Assise di Catanzaro, Mancuso ha raccontato che «la scomparsa di Maria Chindamo ci aveva messo in agitazione. Tutti quei carabinieri mettevano in pericolo le numerose piantagioni che avevamo».
In quel periodo Emanuele Mancuso, non ancora trentenne, frequentava quasi quotidianamente casa di Salvatore Ascone, detto U Pinnularu, fedele servitore, dice la Dda di Catanzaro, della famiglia Mancuso. «Quello con la mia famiglia era un rapporto ‘ndranghetistico – dice Mancuso interrogato dal pm Andrea Buzzelli –. Era un soggetto importantissimo all’interno della mia famiglia. Gestiva il traffico di cocaina e la questione dei terreni». Quest’ultima attività consisteva nella «guardiania e compravendita di terreni che eseguiva soprattutto per conto di mio zio Diego Mancuso». La tecnica era quella di prendere per sfinimento i proprietari: «Rompeva i cancelli, liberava le sue pecore. Fino a quando la gente non gli cedeva i terreni».
Il rapporto «maniacale» con le telecamere
Oggi Ascone è imputato per concorso nell’omicidio di Maria Chindamo, le cui proprietà si trovavano proprio difronte a quelle di Ascone, tanto che le telecamere dell’uomo riprendevano anche lo spiazzo antistante i due cancelli. Emanuele Mancuso racconta che Ascone fosse «maniacale» con la manutenzione delle sue telecamere: «Appena qualcuna si oscurava mandava subito un tecnico». Eppure proprio il giorno in cui Maria Chindamo sparì nel nulla le telecamere di Ascone avevano smesso di funzionare.
Mancuso racconta che in quei giorni si recò da Ascone. Con lui, dal 2014, aveva un rapporto che definisce «molto intimo». Con lui trafficava droga, per lui faceva recupero crediti, bonificava le auto dalle microspie. Per Ascone levò una telecamera sospetta nascosta su un albero. Dopo la scomparsa della Chindamo gli venne chiesto di levarne un’altra da un palo della luce ma poi, per non destare troppi sospetti, gli Ascone decisero di lasciarla lì.
Da Ascone Mancuso si recò nei giorni frenetici della scomparsa dell’imprenditrice. E qui notò qualcosa. L’uomo gli disse che le telecamere erano spente ma sua moglie si precipitò a correggerlo: le telecamere non erano funzionanti. Tanto che Emanuele Mancuso pensò: «Che cambiava se erano spente o non funzionanti?». Non indagò oltre su quello che apprese. Oggi Mancuso lo ammette: «Non mi interessava niente». La sua unica preoccupazione, all’epoca, erano le piantagioni di marijuana.
I 180 giorni travagliati
L’assedio delle forze dell’ordine impensieriva le cosche ed Emanuele Mancuso si trovò a parlarne con Rocco Ascone, figlio di Salvatore, il quale avrebbe commentato: «A questa se la sono mangiata i maiali e i resti li hanno macinati col trattore», per poi aggiungere il macabro particolare del fatto che i maiali avrebbero impiegato 20 minuti a far sparire il corpo.
Nel corso del controesame l’avvocato di Ascone, Salvatore Staiano, ha chiesto perché Emanuele Mancuso, nel corso dei 180 giorni della sua collaborazione, avesse raccontato episodi di minore importanza – come la richiesta, fatta da Ascone, di rimozione di telecamere sospette – e non avesse ricordato un episodio così importante e macabro come quello dei maiali. Emanuele Mancuso ha spiegato che i suoi 180 giorni (il periodo in cui un collaboratore deve raccontare all’autorità giudiziaria tutto quello che sa) sono stati un periodo assai travagliato. «Quando si decide di collaborare non si passa a miglior vita, si passa a peggior vita», ha commentato. E ha aggiunto: «La mia famiglia mi aveva abbandonato. La donna che amavo non mi aveva seguito». A questo si aggiunge il “piano” dei Mancuso di farlo recedere dalla collaborazione, usando la sua bambina appena nata come arma di ricatto. Una serie di pressioni e raggiri che sono poi diventati un processo.
Il ruolo di Cossidente
«I miei 180 giorni sono stati quello che sono stati», commenta Mancuso che ricorda che a stargli vicino in quel periodo fu, in particolare, una persona, il compagno di cella Cossidente (il collaboratore Antonio Cossidente, ndr). «Mi ha preso sotto la sua ala», racconta Mancuso.
Le cronache raccontano che è stato proprio Cossidente, durante il processo sulle pressioni a Emanuele Mancuso, a raccontare quello che il giovane gli aveva rivelato in cella sulla sparizione di Maria Chindamo. Racconto che poi Mancuso fece mettere a verbale a luglio 2021.