Praia: morte dell'operaio 33enne Antonio Maio, cronistoria di una tragedia inaccettabile
La procura di Paola ha indagato sette persone: il titolare della ditta e sei sanitari dell’ospedale di Praia a Mare. Fiordalisi vuole anche capire se medici, infermieri e oss che l’hanno avuto in cura quel pomeriggio abbiano fatto il possibile per strapparlo alla morte o se la tragedia possa essere attribuita a negligenza umana
Lo scorso 25 luglio una notizia scuote la Riviera dei Cedri: Antonio Maio, 33 anni, muore stroncato da un infarto, dopo essersi sentito male mentre era al lavoro in un cantiere edile nella città di Praia a Mare. La notizia fa il giro del circondario e lascia di stucco quanti lo conoscevano. Antonio era un ragazzo in salute e un lavoratore instancabile.
Dopo il lavoro, aveva costruito la sua casa, mattone su mattone, per garantire un futuro sereno alla sua famiglia. Era diventato papà da un anno e mezzo, dopo aver sposato Teresa Mammoliti, la mamma del suo bimbo, con cui aveva condiviso 14 anni di sogni e progetti. Lei e il piccolo Dodò – così lo chiamava - erano tutta la sua vita. Ma la loro felicità si è infranta alle 17.25 di quel pomeriggio maledetto nel pronto soccorso di Praia a Mare, tra mille domande e molti dubbi. Dopo le denuncia della famiglia, la sua morte è diventata oggetto di un'inchiesta della procura di Paola, che ora proverà a fare luce sulla vicenda.
Le ore prima del decesso e l'arrivo in ospedale
A ripercorre le ore precedenti al decesso, ci aiuta Teresa, che ancora oggi non si dà pace per quello che è successo. «Era un marito e un papà non straordinario, di più», ci dice. Come tutte le mattine, Antonio quel giorno si reca al lavoro. La colonnina di mercurio va ben oltre i 40°, l'afa è soffocante. All'ora di pranzo, Antonio approfitta della pausa per passare a salutare la moglie, che dà una mano nello stabilimento balneare di famiglia, e bere un caffè.
Quei pochi minuti vengono catturati dalle telecamere di videosorveglianza della struttura. Poi, il giovane, approfitta per coccolare un po' il suo bambino, lo bacia, lo abbraccia, lo stringe a sé. Saluti e torno al lavoro. Poco dopo, comincia ad accusa un dolore lancinante al petto. Alle 16.37 invia un messaggio a Teresa: «Sto andando in ospedale non mi sento bene». La moglie si precipita al pronto soccorso. Antonio è un bagno di sudore e si porta la mano al petto. Teresa si aggrappa al campanello del reparto, ma non arriva nessuno. Antonio non riesce a stare in piedi, si siede a terra, visibilmente sofferente.
Presa dalla rabbia, la moglie comincia a bussare alla porta con calci e pugni. Quando finalmente qualcuno apre, le dice che non è quello il modo di comportarsi. «Ma mio marito ha un infarto», urla Teresa, che riconosce i sintomi. La donna sull'uscio, un medico o forse un'infermiera, l'avrebbe tranquillizzata dicendo che si avrebbe potuto trattare un colpo di calore, considerate le alte temperature. Poi invita Antonio ad alzarsi ed entrare in reparto. Il giovane raccoglie le sue ultime forze e si incammina.
La porta alle sue spalle si chiude e quello che succederà di lì in poi, non è dato saperlo, fino alle 17.25 di quello stesso giorno, quando i medici costatano il decesso e informano Teresa, che nel frattempo continuava a chiamare a vuoto suo marito al cellulare. «Siamo rimasti soli - continua -, il mio bimbo continua a chiamare il suo papà tutto il giorno e io non so che dire». Vicino a lei ci sono i suoi suoceri, mamma Imma e papà Nazareno, che ascoltano affranti, e in lacrime, il racconto della nuora.
Le indagini
La famiglia piomba nella disperazione, ma trova la forza e il coraggio, per il tramite dei propri avvocati, di chiedere che venga fatta luce sull'accaduto. Quel giorno l'afa era insopportabile e Antonio, secondo quanto riporta la famiglia, quando si è sentito male stava rifacendo l'asfalto in un cantiere privato. Le alte temperature possono aver contribuito all'insorgenza del malore? Antonio era tenuto a fare quei lavori, a quell'ora del pomeriggio? A questa ed altre domande proverà a rispondere la procura di Paola, che ha aperto un fascicolo di indagine e iscritto nel libro degli indagati sette persone: si tratta del titolare della ditta e sei sanitari in servizio all'ospedale di Praia a Mare. Il procuratore Domenico Fiordalisi vuole anche capire se i medici, gli infermieri e gli oss che l'hanno avuto in cura quel pomeriggio abbiano fatto il possibile per strapparlo alla morte o se la tragedia possa essere attribuita a una qualche negligenza umana.
Caos sanità
Al netto di eventuali responsabilità personali nella vicenda, di cui si dovrà occupare unicamente il tribunale, è bene fare chiarezza sulla struttura sanitaria praiese e sull'insegna bugiarda al suo ingresso, “ospedale”, appunto, che fu montata in occasione dell'inaugurazione farlocca del novembre 2017 da una politica in cerca di voti e consenso in vista delle elezioni politiche del marzo 2018.
L'ospedale civile di Praia a Mare fu chiuso il 31 marzo 2012 per ottemperare al piano di rientro sanitario regionale, con cui i governi di quell'epoca volevano ripianare l'enorme buco economico – questa è la versione ufficiale – e migliorare la sanità delle regioni commissariate come la Calabria. L'ospedale venne riconvertito in casa della salute, cioè privato della rete di emergenza e di urgenza e trasformato in un enorme ambulatorio dotato di un punto di primo intervento, e non pronto soccorso.
Dopo la finta riapertura dell’ospedale del 2017, lo stesso Massimo Scura, all'epoca commissario ad acta della sanità calabrese, rivelò nel corso di un’intervista che quello non era ancora un “vero” ospedale.
Da allora, la struttura ha subito notevoli cambiamenti e anche importanti potenziamenti, ma, nei fatti, la rete di emergenza e urgenza non è mai stata ripristinata. Lo dimostra il fatto che, al di là delle difese di campanile, all'ospedale di Praia, ad oggi, non esiste un reparto di chirurgia. Non ci sono sale operatorie. Questo significa una sola cosa, anche senza studi scientifici: l'ospedale di Praia a Mare non può intervenire con efficienza sui pazienti che sono in imminente pericolo di vita, a prescindere dalla professionalità e dalle conoscenze mediche di chi vi lavora.