Quarant’anni fa l’omicidio di Sergio Cosmai, la moglie: «Ci siamo sentiti soli, la mafia non è solo chi uccide, ma anche chi tace»
Lo sfogo di Tiziana Palazzo nel giorno dell’anniversario della morte del direttore del carcere di Cosenza: «Non era un eroe, era un uomo dello Stato»
di Redazione Cronaca
C'era un adesivo sulla sua Fiat 500 gialla. Un simbolo piccolo, eppure enorme: un fucile spezzato da una pedata, emblema degli obiettori di coscienza. «Gliel'avevo regalato io» -racconta Tiziana Palazzo, «perché rappresentava perfettamente ciò in cui credeva: la non violenza, la giustizia, la legalità». Comincia così, a 40 anni dalla sua morte, il racconto che fa all'Agi la moglie di Sergio Cosmai, direttore del carcere di Cosenza, assassinato il 12 marzo del 1985. Morì il giorno successivo: aveva 36 anni, una moglie, una figlia di tre anni, Rossella, e un altro bambino in arrivo.
La 'ndrangheta decise che doveva morire perchè con il suo lavoro aveva spezzato equilibri scomodi, aveva negato ai boss i privilegi che consideravano dovuti. Aveva fatto quello che era giusto fare. Ma non era solo la mafia a condannarlo: fu la solitudine istituzionale, il vuoto attorno a lui, a renderlo un bersaglio ancora più facile. «Sergio non era un eroe, era un uomo dello Stato, un funzionario che faceva semplicemente il suo dovere. Eppure, nella sua normalità, era straordinario: rispettava tutti, dai suoi collaboratori ai detenuti. Non dava mai del tu, non imponeva il suo ruolo con autorità, ma con l'esempio. Credeva che all'interno di un carcere lo Stato dovesse essere presente in ogni gesto, in ogni decisione. Forse è stato proprio questo a renderlo un uomo scomodo».
Il 12 marzo 1985
Cosa accadde il 12 marzo? «Io non sapevo nulla, non immaginavo. Quel giorno ero serena, aspettavo mio marito che doveva andare a prendere nostra figlia all'asilo. Lui era rientrato quella mattina da una missione a Vibo Valentia e mi aveva portato delle arance, perchè sapeva che in gravidanza ne avevo voglia. Un gesto piccolo, quotidiano, normale. Poi alle due gli telefonai: 'Devi andare a prendere la bambina'. 'Sì, vado subito', mi rispose.
Dopo cinque minuti la macchina con i killer lo aspettava dietro l'angolo». Ma lei non lo sapeva ancora. «Sentii delle sirene in lontananza, ma non mi passò nemmeno per la testa che potesse essere per lui. Poi venne la moglie di un maresciallo, bussò, entrò, spense la televisione. 'Ti devo dire una cosa' mi disse. 'Tuo marito ha avuto un incidente, ma niente di grave'. Mi tranquillizzo' - ricostruisce Tiziana -, mi disse che stava bene, che presto lo avrebbero trasferito in un ospedale a Bari. Ma io non riuscivo a capire, non riuscivo a mettere insieme i pezzi. La verità mi fu tenuta nascosta perchè ero incinta, perchè non volevano che subissi uno shock. E così restai lì, sospesa, nel vuoto di un'attesa irreale, senza sapere che mio marito era già morto».Per anni, il nome di Sergio Cosmai è rimasto sospeso. La sua storia, il suo sacrificio, sono stati per troppo tempo un ricordo intimo, familiare, privato. «A Bisceglie per molto tempo non si è parlato di lui», dice la moglie.
«Io stessa ero immersa in una realtà complicatissima. Poi, nel 2005, tutto è cambiato: alcuni colleghi della mia scuola hanno detto che non era possibile che in quel liceo, dove avevano studiato i figli di Sergio Cosmai e dove io insegnavo, nessuno ne parlasse. Da li' e' iniziata l'opera di memoria».
La giustizia è arrivata ancora più tardi della memoria: per 27 anni il nome di Sergio Cosmai è rimasto impolverato nei faldoni dimenticati di un'indagine che sembrava destinata all'oblio: «La prima fu chiamata 'Missing', perchè le carte erano sparite. Era come se non ci fosse mai stata la volontà di trovare i responsabili», racconta Tiziana Palazzo.
Solo nel 2012 il mandante, Francesco Perna, venne condannato all'ergastolo dopo la conferma da parte della Cassazione. Ma gli esecutori materiali dell'omicidio, pur individuati, furono assolti per insufficienza di prove. «È un'indecenza, una vergogna», dice: «Non c'è sentenza che possa sanare questa ferita».
A rendere tutto ancora più doloroso fu il clima di omertà in cui la famiglia si ritrovò immersa. «Io lo sentivo addosso, quel silenzio. E lo sento ancora. Ci sono troppe persone che hanno preferito non sapere, non vedere. Persino dopo la sua morte, ci siamo sentiti soli. La mafia non è solo chi uccide, ma anche chi tace, chi si volta dall'altra parte».