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10/09/2025 ore 06.15
Cronaca

Soverato, 25 anni dopo la tragedia del camping Le Giare: il fango che non si lava via

Il 10 settembre 2000 l’esondazione del Beltrame travolse una struttura che non doveva stare lì, causando 13 vittime. Un disastro frutto di incuria urbanistica, che oggi viene ricordato come monito per il futuro di una terra a rischio

di Gianfranco Donadio*

Soverato, 10 settembre 2000. Una notte che la Calabria non dimenticherà mai. Il camping "Le Giare", un'oasi di serenità sul litorale ionico, accoglie circa cinquanta persone in cerca di riposo e solidarietà. Volontari dell'Unitalsi di Catanzaro, disabili e il loro custode, Vinicio Caliò, che veglia su tutti. Sono lì per un campo estivo, per condividere gioia in una terra che sa di mare e di ulivi antichi. Ma la natura, tradita dall'uomo, ha altri piani.

Dopo due giorni di piogge incessanti, il torrente Beltrame si gonfia come una bestia ferita, esonda con furia apocalittica e travolge tutto. Acque torbide, fango denso, detriti che trascinano via tende, bungalow, roulotte. In un istante, il paradiso diventa inferno. Tredici vite spezzate: Ida e Serafina Fabiano, Mario Boccalone, Raffaele Gabriele, Paola Lanfranco, Iolanda Mancuso, Giuseppina Marsico, Franca Morelli, Rosario Russo, Antonio Sicilia, Salvatore Simone, Concetta Zinzi. E Vinicio Caliò, il cui corpo svanì nel nulla, inghiottito dal mare come un ultimo, silenzioso rimprovero.

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Quei fatti non furono solo un capriccio del cielo. Furono un grido di un territorio violentato. Il camping sorgeva proprio nell'alveo del torrente, in una zona nota per il rischio idrogeologico – un errore madornale, frutto di un'urbanistica sconsiderata e di permessi concessi con leggerezza. In Calabria succede. Le indagini, culminate in condanne definitive della Cassazione per omicidio colposo, puntarono il dito su colpe precise: il proprietario della struttura, che ignorò i pericoli per profitto; un funzionario dell'Agenzia del Territorio, complice di autorizzazioni illegittime; un altro della Regione Calabria, che chiuse gli occhi sul dissesto. Non fu fatalità, ma incuria. Una Calabria che, per troppi anni, ha anteposto il "fare" al "prevenire", lasciando che il cemento divorasse i greti fluviali e i boschi che trattengono l'acqua. Quelle morti erano evitabili, e questa verità brucia come sale sulle ferite.

Eppure, in mezzo al caos, la macchina dei soccorsi mostrò il cuore pulsante di questa terra. Oltre trecento vigili del fuoco, pompieri da tutta Italia, si precipitarono sul luogo. Volontari locali, con le mani nude nel fango, scavavano sperando in un miracolo che non arrivò. Le immagini – tronchi giganti sulla spiaggia, auto accartocciate come lattine, carcasse di animali sparse come presagi – erano da fine del mondo. Ma quei soccorritori, esausti e coperti di melma, incarnarono la forza d’animo dei calabresi: non si arresero, recuperarono dodici corpi, confortarono famiglie straziate. Fu un balletto tra eroismo e impotenza, tra tecnologia e tradizione, che salvò i superstiti ma non poté cancellare il dolore. Oggi, a venticinque anni di distanza, quel meccanismo – migliorato con piani di emergenza più rodati e fondi per la regimentazione idraulica, come i sei milioni stanziati per Soverato – ci insegna che la prevenzione è il vero eroe, non l'improvvisazione.

Ma andiamo più in profondità, anche su un piano antropologico. La Calabria è una terra scolpita dalle catastrofi, un'antica danza tra uomo e natura indomita. Da millenni, alluvioni e frane sono compagne di viaggio: pensate al 1953, quando il Tirreno inghiottì interi paesi; o al 2006, con il maltempo che flagellò la Sila; fino ai recenti nubifragi del 2024, che hanno sommerso Lamezia e Locri, ricordandoci che il clima cambia ma l'incuria no. Questa regione, con il suo 90% di comuni a rischio secondo l'ISPRA, porta nel DNA una fatalità stoica: il fatalismo del contadino che semina sul vulcano, la devozione alla Madonna delle Grazie per scongiurare il diluvio. È un'antropologia del limite, dove il mare dà e toglie, i torrenti nutrono e distruggono, come ci ricorda Vito Teti. I calabresi, gente di roccia e di lacrime, hanno imparato a rialzarsi – con processioni, canti e una solidarietà che sfida la burocrazia – ma pagano il prezzo di una storia di abbandono: governi centrali distratti, risorse mal gestite, un Sud che invoca prevenzione ma riceve cerotti. Eppure, in questa resistenza c'è una forza primordiale, un'etica del "sopravvivere insieme" che trasforma il lutto in monito collettivo.

Una delle commemorazioni delle vittime a Soverato[Missing Credit]

Ricordare Le Giare non è solo commemorare: è agire. E un'opportunità concreta arriva proprio quest'anno. Ad ottobre, l'Università della Calabria ospiterà un seminario dal titolo “Ecologie della visione. La catastrofe tra cinema, media e cultura visuale”. Si tratta di un Convegno collegato al PRIN 2022 PNRR, “Catastrophes of Southern Italy. Photogénie and remediation of natural disasters”, organizzato da Angela Maiello, docente di Media e Società Digitale nel Dipartimento DISPeS. Nelle aule di Arcavacata, il 21 e il 22 ottobre, esperti e studiosi dibatteranno di alluvioni e disastri in Calabria, intrecciando storia, media e politiche di prevenzione. Mentre una Mostra dal titolo: "Raccontare Tracciare Rimediare. Le immagini della catastrofe in Calabria", sarà inaugurata il 25 settembre e sarà visitabile fino al 24 ottobre presso le Biblioteche di Ateneo.

È un invito a non lasciare che il fango si asciughi sul passato: discutiamo, proponiamo, cambiamo rotta. Perché la Calabria non merita più vittime per le alluvioni, ma sentieri sicuri e un futuro senza rimpianti.

Venticinque anni dopo, le giare rotte del Beltrame ci sussurrano: non dimenticate. E noi, con passione e lucidità, giuriamo di non farlo. Per Ida, Serafina, per tutti loro. Per Vinicio, che forse guarda dal fondo del mare, aspettando che impariamo la lezione.