«Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato»: Losardo, storia di un uomo che non si piegò alla ‘ndrangheta. Riaperte le indagini dopo 45 anni
Dopo silenzi, depistaggi e un processo finito con assoluzioni per mancanza di prove, la Procura di Paola ha deciso di indagare ancora. Un nuovo spiraglio verso la verità per la famiglia e la Calabria intera
È la sera del 21 giugno 1980. Giovanni Losardo, 53 anni, sta tornando a casa a bordo della sua Fiat 126 azzurra. Ha appena partecipato a una seduta del consiglio comunale di Cetraro, in provincia di Cosenza. Sono circa le 22:00, e lungo la statale 18, al chilometro 298,8, l’inferno si scatena.
Due killer, forse su una moto di grossa cilindrata, forse a bordo di un’auto, lo affiancano. Una raffica di proiettili squarcia il silenzio della notte. Losardo è ferito gravemente. Cerca di salvarsi, esce dall’auto, ma un colpo di pistola lo raggiunge, spegnendo ogni speranza. Trasportato all’ospedale di Paola, muore il pomeriggio successivo. Ma prima di andarsene, pronuncia parole che risuonano ancora oggi: “Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato”.
Chi era Giovanni Losardo? E perché la sua morte rappresenta un capitolo così doloroso nella storia della Calabria? Per capirlo, dobbiamo fare un passo indietro e raccontare chi era quest’uomo, la sua lotta e il contesto in cui ha vissuto.
Giovanni Losardo, per tutti “Giannino”, era un uomo semplice ma determinato. Nato a Cetraro, era un militante del Partito Comunista Italiano, in un’epoca in cui essere comunisti in Calabria significava prendere posizione contro un sistema di potere spesso colluso con la criminalità. Losardo non era solo un politico: era consigliere comunale a Cetraro, ma anche capo della segreteria della Procura di Paola. Due ruoli che lo mettevano al centro di un sistema che la ‘ndrangheta voleva controllare a tutti i costi.
Negli anni ’70 e ’80, la Calabria era un territorio in trasformazione. La ‘ndrangheta non era più solo un fenomeno rurale: stava diventando una potenza economica, infiltrandosi nel mercato ittico, nella speculazione edilizia, nei traffici illeciti. A Cetraro, il clan Muto, guidato da Franco Muto, soprannominato “il re del pesce”, stava consolidando il suo dominio sul Tirreno cosentino. Ma Losardo non stava a guardare. Dal consiglio comunale e dalla Procura, denunciava con coraggio le collusioni tra criminalità e politica locale.
Era una voce fuori dal coro, in un contesto di omertà e paura. Losardo non si limitava a parlare: agiva. Come consigliere, si opponeva alle speculazioni edilizie che arricchivano i clan. Come funzionario della Procura, vedeva da vicino i meccanismi di un sistema giudiziario spesso fragile, vulnerabile alle pressioni della ‘ndrangheta. Era una figura scomoda, un uomo che non si piegava. E per questo, divenne un bersaglio.
Ma torniamo a quella tragica sera del 1980. Losardo ha appena lasciato il municipio di Cetraro. È una serata come tante, ma qualcuno lo sta seguendo. Lungo la statale 18, i killer entrano in azione. Gli spari, il caos, il sangue. Losardo cerca di scappare, ma non ha scampo. Prima di morire, però, fa in tempo a lasciare un messaggio che è un grido di accusa: “Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato”. Quelle parole, pronunciate a un maresciallo dei carabinieri accorso sul posto, sono un macigno. Implicano che i responsabili non erano estranei, ma figure note, radicate nella comunità.
Losardo chiede anche di parlare con il suo amico, l’avvocato Francesco Granata. Ma, secondo alcune ricostruzioni, Granata riferì che Giannino non disse nulla di significativo. Un dettaglio che, col tempo, ha alimentato sospetti: cosa voleva dire Losardo? E perché quelle parole non sono mai state approfondite?
Le indagini sull’omicidio partono subito, ma si muovono in un terreno minato. Il sospetto principale ricade sul clan Muto. Franco Muto, il boss, è considerato il possibile mandante. Vengono indagati anche presunti esecutori materiali: Francesco Roveto, Antonio Pignataro, Franco Ruggiero e Leopoldo Pagano. Ma il processo, trasferito a Bari per legittima suspicione, si conclude nel 1986 con un nulla di fatto: tutti assolti per mancanza di prove.
Le indagini, però, erano piene di lacune. Non fu mai effettuata una perizia balistica sui bossoli e i proiettili ritrovati sulla scena del crimine, un errore clamoroso denunciato anni dopo dal figlio di Losardo, Raffaele. E non è tutto. Nel 1991, un’ispezione del magistrato Francantonio Granero presso la Procura di Paola porta alla luce una realtà inquietante: sfiducia nella magistratura locale, sospetti di collusioni, omissioni. La relazione di Granero, oltre 300 pagine, è un documento esplosivo, ma non viene mai approfondita dai media né porta a sviluppi concreti. Ancora una volta, la verità sembra scivolare via.
L’omicidio di Losardo non è un caso isolato. Pochi giorni prima, l’11 giugno 1980, un altro esponente del PCI, Peppino Valarioti, era stato ucciso in un altro comune calabrese. Entrambi i delitti, rimasti impuniti, segnano un periodo di estrema violenza della ‘ndrangheta contro chi osava opporsi. Losardo e Valarioti rappresentavano una minaccia per il sistema mafioso: erano uomini che credevano in un’altra Calabria, libera dalla paura e dalla corruzione.
La morte di Losardo fu un messaggio chiaro: nessuno doveva sfidare il potere della ‘ndrangheta. In quegli anni, il clan Muto non controllava solo il traffico di droga o le estorsioni, ma anche settori chiave dell’economia locale, come il mercato ittico. Losardo, con le sue denunce, metteva a rischio questo sistema. La sua eliminazione serviva a zittire chi, come lui, non si piegava.
Nel 2024, il docufilm “Chi ha ucciso Giovanni Losardo?” di Giulia Zanfino, ha riportato l’attenzione su questa storia. Il film non solo racconta la vita e l’eredità di Losardo, ma punta il dito contro l’omertà e i presunti insabbiamenti che hanno impedito di arrivare alla verità. È un grido di giustizia, che ha scosso la comunità e riacceso la speranza.
Nel luglio 2025, una svolta. La Procura di Paola, guidata dal procuratore Domenico Fiordalisi, annuncia la riapertura delle indagini. A spingere questa decisione, una nuova testimonianza del figlio di Losardo, Raffaele, rilasciata durante una puntata di “Chi l’ha visto?” su Rai 3, e le pressioni della società civile. Viene aperto un fascicolo contro ignoti, con l’obiettivo di esplorare nuove piste. Tra gli elementi di interesse, il ritrovamento di un arsenale di 35 armi ad Acquappesa, che potrebbe fornire indizi. Le indagini si concentrano anche sui collegamenti con altri 11 omicidi avvenuti nel Tirreno cosentino tra il 1979 e il 1983. È una corsa contro il tempo per fare luce su un’epoca oscura.
Ad oggi, l’omicidio di Giannino Losardo rimane senza colpevoli. I responsabili materiali e i mandanti assolti nel 1986 non possono essere processati di nuovo. Ma la riapertura del caso rappresenta una speranza per la famiglia e per la Calabria. L’obiettivo non è solo trovare i colpevoli, ma chiarire il contesto storico e politico di quel delitto: chi proteggeva chi? Quali connivenze hanno permesso che la verità restasse sepolta per oltre 40 anni?
La storia di Giovanni Losardo è quella di un uomo che ha scelto di non tacere, pagando il prezzo più alto. È una storia che ci ricorda quanto sia fragile la giustizia in un contesto di omertà e potere mafioso. Ma è anche una storia di resistenza, che continua a ispirare chi, oggi, lotta per una Calabria diversa.