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02/06/2025 ore 17.35
Cultura

A patti con il diavolo: dal genio di Paganini alle credenze folkloristiche calabresi

Virtuosismo e leggenda si intrecciano nella figura del violinista “maledetto” che riecheggia nei racconti popolari regionali, dove il confine tra sacro e profano è spesso sottile come una corda di violino

di Gabriella Chiarella

Nel panorama della musica classica, pochi nomi evocano un’aura tanto enigmatica quanto quello di Niccolò Paganini (Genova 1782 – Nizza 1840). Genio dal talento indiscusso, la sua figura si imprime nella memoria
collettiva non solo per le straordinarie capacità tecnico-musicali, quanto per il mito oscuro che la caratterizza: quello del patto con il diavolo.

Paganini iniziò a suonare il violino da bambino, dimostrando fin da subito un talento fuori dal comune. Capace di affrontare passaggi vertiginosi, imitare voci e strumenti, suonare su una sola corda con disarmante facilità, la sua padronanza tecnica e il virtuosismo senza precedenti lo resero una leggenda già in vita.

Ma la sua leggenda va oltre il talento: è qualcosa che si insinua nell’inquietudine collettiva. Come poteva un solo uomo compiere ciò che sembrava impossibile persino per i migliori musicisti? Per molti, la spiegazione era una sola: aveva stretto un patto con il diavolo. Imputabile era anche il suo aspetto fisico. Paganini era alto, pallido, magro, con lunghi capelli scuri, occhi incavati e tratti spigolosi. Il perfetto interprete per un affascinante Nosferatu moderno che si scardina dai canoni del mostro. Oppure (come si preferisce) il musicista dannato che ha venduto l’anima al diavolo in cambio del genio

Se avessimo avuto la fortuna di assistere a uno dei suoi concerti, saremmo rimasti ipnotizzati da questa figura allampanata e claudicante che emergeva dalla penombra come in una visione romantico-surreale. Si racconta che a volte suonasse con una foga tale da spezzare le corde del violino, continuando imperterrito su quella rimasta.
Non stupisce, allora, la celebre frase: “Paganini non ripete”, pronunciata di fronte alla richiesta del re Carlo Felice di Torino di eseguire un bis. Come si può ripetere un brano nato da un’improvvisazione rapsodica, più simile a una convulsione dell’anima che a un’esibizione studiata? In alcune città si narrava che, durante i concerti, la sua ombra si muovesse indipendentemente dal corpo, o che al suo fianco apparisse una figura scura – il diavolo stesso – intento a sussurrargli all’orecchio.

Anche la difficoltà della sua musica alimentava il mito. I 24 Capricci per violino solo, in particolare, restano tutt’oggi una sfida monumentale per ogni violinista. Brani tecnicamente “infernali”, pieni di salti, arpeggi, pizzicati, doppie corde e altre diavolerie musicali. Il più celebre, il Capriccio n. 24, ha ispirato generazioni di compositori – da Liszt a Rachmaninov – ed è diventato un emblema del virtuosismo assoluto.

Alla sua morte, la leggenda non si spense. Anzi, si fece più cupa. La Chiesa cattolica si rifiutò di concedergli una sepoltura in terra consacrata, proprio per via della sua fama sinistra e delle voci sui presunti rapporti con il demonio. Il corpo di Paganini rimase non sepolto per anni, peregrinando da una città all’altra, finché non trovò infine riposo a Parma.

Un’immagine, quella del musicista che suona accanto al demonio, che non riecheggia soltanto nei salotti inquieti dell’Europa romantica, ma anche nelle pieghe profonde della cultura popolare calabrese, dove il confine tra sacro e profano è spesso sottile come una corda di violino.
In molte comunità dell’entroterra e delle zone montane, il diavolo non è una metafora: è una presenza reale, concreta, nominata a bassa voce e temuta come parte del quotidiano. Si crede che si manifesti nei momenti di estasi, di eccesso, di invidia o di straordinaria abilità – proprio come accadeva nei racconti sui suonatori di zampogna, di lira o di organetto, che avrebbero ricevuto il dono della musica non dagli uomini, ma da “qualcun altro”. 

In questo contesto, la figura di Paganini si intreccia idealmente con il folclore locale: l’uomo che suonava cose “non di questo mondo” diventa parente lontano di quei musicisti leggendari che, anche in Calabria, si dicevano ispirati da forze oscure. Perché quando l’arte supera l’umano, il sospetto del soprannaturale – o del diabolico – non tarda ad affacciarsi, in un profondo intreccio tra sacro e profano, tra genio e maledizione, tra fascino e mistero.