Addio a Paolo Virno, il filosofo che con la Grammatica della moltitudine fece dell’Unical un cantiere di idee
L’adesione all’Autonomia Operaia, il carcere e l’esilio prima dell’invito nell’ateneo calabrese in cui aprì cantieri e offrì agli studenti «strumenti per abitare il presente». Ricordo del pensatore che fece della semiotica un’arma di lotta politica
È stato Alfonso Bombini, suo ex studente, che mi ha informato della morte di Paolo Virno. Così mi sono precipitato a concentrare appunti e memoria sul professore che fumava sempre.
Paolo Virno è un filosofo che descrive il mutamento del lavoro e del potere. E’ il testimone di una transizione epocale che va dal fordismo industriale alla società della comunicazione totale, dal conflitto di classe alla precarietà esistenziale. La sua traiettoria di militante, carcerato, esule, docente universitario si può leggere come un rito di passaggio collettivo: l’operaismo degli anni ’70 che si dissolve nel capitalismo cognitivo degli anni 2000, lasciando dietro di sé non un’utopia realizzata, ma una “forma di vita” nuova, ambigua, irriducibile.
Virno nasce a Napoli nel 1952, ma è Roma – con la sua facoltà di Filosofia occupata, le assemblee notturne, i ciclostilati – a fungere da villaggio iniziatico. Laureatosi con Umberto Eco, assimila la semiotica come arma. Cioè, il linguaggio non è neutro, ma è “prassi”. Entra nell’Autonomia Operaia non come ideologo, ma come “praticante”: redattore di “Metropoli”, animatore di radio libere, parte di quella che lui stesso chiamerà più tardi la “seconda generazione operaista”. Qui il filosofo interpreta i segni del presente (la fabbrica sociale, il rifiuto del lavoro) per trasformare la realtà.
L’arresto del 7 aprile 1979 è il “trauma fondativo”. Tre anni di carcere preventivo non sono solo repressione ma sono “limen”, soglia. Virno vi legge Wittgenstein in cella, traduce l’isolamento in riflessione sul linguaggio come potere costituente. Il processo (assoluzione nel 1987) non chiude il rito ma lo proietta nell’esilio. Un esilio come etnografia del fuori-luogo. Canada, Francia: Virno vive il decentramento come “osservazione partecipante”. Lavora come operaio, insegnante, traduttore. Scrive “Convenzione e materialismo” (1986) in francese: il linguaggio non è più solo italiano, ma è “transnazionale”.
L’esilio gli insegna che il General Intellect – l’intelletto collettivo marxiano – non è più confinato in fabbrica ma è “ovunque” nei call center, nei bar, nelle reti. Il rientro in Italia, se non ricordo male, coincide con l’invito all’Università della Calabria dal 1996 al 2004. Non è un ritorno trionfale, ma rituale di reintegrazione. Ad Arcavacata di Rende, Virno ottiene la cattedra di Filosofia del Linguaggio, Semiotica ed Etica della Comunicazione.
L’Unical, periferia del sapere, lontana dai centri romani, diventa il suo laboratorio. Qui non insegna teorie ma “fa vedere” come il lavoro cognitivo sia diventato “virtuosistico” (richiede pubblico, come un pianista), come la precarietà generi opportunismo esistenziale.
Nel gennaio 2001, il seminario sulla moltitudine è un “cantiere” con studenti, dottorandi e attivisti. Ne nasce “Grammatica della moltitudine”, un testo orale, dialogico, “anfibio”. Qui Virno distingue: il “popolo” è uno (fiction statale), la “moltitudine” è molteplice, irriducibile, “potenza non rappresentata”. Nel 2012 un seminario sul “déjà vu” è un “rito di memoria”. Il filosofo usa il fenomeno psicologico per dire che viviamo in un eterno ritorno del medesimo, la storia è finita, ma non il conflitto. Il video su YouTube è un “documento etnografico” del filosofo al lavoro.
Con Marco Mazzeo organizza un seminario di settimane non gerarchico ma orizzontale. Con Angelo Nizza e Adriano Bertollini, l’Unical ancora una volta diventa fucina di concetti come esodo, neotenia, linguaggio come “diagramma naturale-storico”. Franco Piperno, altro esule operaista, insegna lì. E' una “linea di discendenza” politica che si fa accademia.
Virno non offre soluzioni. Offre “strumenti per abitare il presente”. Il suo pensiero è una “mappa del post-fordismo”. Il lavoro è linguistico”, quindi non produci oggetti, ma produci “relazioni”. La moltitudine non è classe ma è “forma di vita” che resiste alla cattura. Il déjà vu è il sintomo che viviamo in un tempo “senza storia”, ma con infinite variazioni. Da Arcavacata di Rende a Roma Tre (dove ha insegnato dal 2005), Virno porta con sé l’Universita’ della Calabria come memoria incarnata di un luogo dove la teoria è diventata pratica collettiva, dove il filosofo non spiega il mondo, ma lo abita con altri.
In un’epoca di solitudine digitale, il suo insegnamento è un “richiamo tribale”. Il pensiero critico non si fa da soli ma si fa in cerchio, parlando, litigando, ridendo. Come in un’assemblea del ’77. Come in un’aula del 2001. Come in un futuro che ancora non ha nome.
*Documentarista