Carlo Levi, la Sila e la riforma agraria: l’illusione di una nuova Calabria (che non è mai stata)
In una riflessione degli anni Sessanta lo scrittore racconta una regione pronta al cambiamento dopo secoli di miseria. Tra identità, sviluppo autonomo e fallimenti istituzionali, resta il segno di un’occasione perduta
Prendendo spunto da un libro curato dall'Automobile Club dedicato alla Sila, Carlo Levi, nel marzo del 1960, scrive di una nuova Calabria, «un paese di uomini vivi e coscienti» che, facendo tesoro di un lungo periodo di lotte e di occupazioni e del successivo avvio delle trasformazioni agrarie, si appresta a liberarsi della servitù e della miseria secolare, riaffermando – spiega Levi – «il valore dell'uomo in mezzo alla sua antichissima natura meravigliosa».
Non sembra vero che si possa finalmente prendere atto di un moto di rivendicazione che faccia sperare in un destino diverso per piccoli centri come Melissa, Strongoli, Santa Severina, Cirò, villaggi ignoti «tra argille degenerate e cadenti». Di quel tempo che pare non si svolga, funestato per secoli da fame, miseria, malaria e fatica, viene colto un movimento che rompe le attese e che attinge – aveva detto Levi già qualche anno prima – alla grande riserva di vitalità del nostro paese. Insomma, Levi nella vita autonoma, risentita e solitaria delle terre e degli uomini calabresi coglie un vero e proprio moto in atto, qualcosa di più che una semplice potenzialità inespressa e che sia in grado di lasciarsi alle spalle analfabetismo, passività, estraneità dello Stato.
Moto, dunque, che, arrivando alla rivendicazione, deve passare necessariamente da una nuova presa di coscienza. Anche se la Riforma Agraria – ammette Levi – può considerarsi, almeno in parte, fallita, per le sue tare burocratiche e paternalistiche, pure nei calabresi resta qualcosa. Per lo meno, era auspicabile che qualcosa fosse rimasto e che avrebbe consentito, qualora l'auspicio di Levi si fosse verificato, di far fronte alle contraddizioni del capitale e a una politica agraria nazionale ed europea non sempre in grado, da lì in avanti, di rispettare l'identità di un territorio e di far fronte alle sue esigenze.
Esigenze di una diversità da non colonizzare e che, magari, avrebbe potuto trovare in sé l'impulso per uno sviluppo che avesse una misura propria e che fruisse di un carattere che non gli fosse stato imposto da nessuno. È del tutto lecito che Levi nutrisse delle speranze che, anche nei decenni successivi, continuarono ad alimentare le riflessioni sul Meridione; purtroppo però, e lo sappiamo bene, le cose non sono andate in quella direzione.