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27/08/2025 ore 08.05
Cultura

Cesare Pavese, lo scrittore della solitudine e del desiderio inappagato che continua a “parlare” alle nuove generazioni

Il biglietto che lasciò sul comodino dell’albergo non fu solo un congedo, ma la conferma che vita e letteratura, per lui, non erano mai state due cose separate

di Ernesto Mastroianni

Ogni anno, il 27 agosto, la letteratura italiana si ferma per ricordare Cesare Pavese, morto suicida nel 1950 nella camera dell’albergo Roma, a Torino. Il suo corpo venne ritrovato accanto a una copia dei "Dialoghi con Leucò" e a un biglietto che ancora oggi conserva una disarmante essenzialità: «Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Poche frasi, brusche e scarne, come se Pavese avesse voluto imporre anche alla propria morte la stessa asciuttezza che caratterizzava la sua scrittura.

Quell’addio non arrivò all'improvviso. Tutta la sua opera sembra costellata da presagi e da segnali, a partire dai romanzi degli anni Trenta e Quaranta. Già in "Paesi tuoi" (1941), la sua prima prova narrativa, la campagna piemontese era apparsa come un luogo duro e crudele, dominato da forze elementari, lontano da ogni idealizzazione bucolica. In "Il carcere" (scritto negli anni Trenta, pubblicato nel 1948), nato dalla sua esperienza di confino politico a Brancaleone Calabro, si affacciava con chiarezza il tema della solitudine e della distanza incolmabile tra l’individuo e il mondo.

La città, invece, entra in scena ne "La casa in collina" (1948), romanzo ambientato durante la guerra, dove il protagonista Corrado è sospeso tra il bisogno di appartenenza e l’incapacità di prendere posizione. In "Il compagno" (1947) Pavese affronta per la prima volta, attraverso la vicenda di un musicista, la dimensione politica e collettiva, senza mai però sciogliere il nodo del suo tormento personale.

L’opera forse più nota e radicale resta "La luna e i falò" (1950), pubblicata pochi mesi prima della morte: un ritorno del protagonista Anguilla al paese natale dopo anni di lontananza in America. Il ritorno non è riscatto, ma disillusione: le colline non sono più il rifugio dell’infanzia, ma luoghi segnati dalle atrocità della guerra e dalle passioni violente della comunità contadina. La luna, simbolo di un mistero irraggiungibile, osserva muta; i falò, che da bambini apparivano come giochi magici, diventano strumenti di distruzione. Questo romanzo è il vero testamento di Pavese. Un libro in cui la nostalgia si tramuta in constatazione dell’impossibilità di tornare davvero a casa.

Non meno significativi furono i "Dialoghi con Leucò" (1947), ventisei conversazioni mitologiche in cui gli eroi e gli dèi della Grecia classica parlano con voce contemporanea, affrontando temi come il destino, l’amore, la morte. Pavese, che era stato lettore appassionato dei grandi scrittori americani — da Melville a Faulkner, da Dos Passos a Steinbeck, da Sherwood Anderson a Hemingway — cercava nel mito un linguaggio universale, una forma per dire ciò che la cronaca non poteva. La sua esperienza di lettore e traduttore lo aveva temprato a una prosa essenziale, capace di risuonare con la modernità, pur radicandosi in paesaggi ancestrali.

Parallelamente alla narrativa, la poesia accompagnò Pavese fino alla fine. Le raccolte "Lavorare stanca" (1936, ampliata nel 1943) e, soprattutto, "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" (pubblicata postuma nel 1951), mostrano due facce della sua sensibilità. Nella prima prevale l’osservazione del mondo, con una poesia narrativa, quasi prosastica, che mette in scena personaggi marginali e paesaggi quotidiani. Nella seconda, invece, l’io lirico si restringe fino a coincidere con il dolore personale: la donna amata, assente o inafferrabile, diventa incarnazione della morte stessa, in un intreccio che annuncia il gesto estremo dello scrittore.

Pavese era uomo di letture incessanti e diversificate. Oltre agli americani, che introdusse in Italia attraverso le traduzioni per Einaudi, amava i classici russi — Tolstoj, Dostoevskij, Cechov — e i francesi, soprattutto Baudelaire e Gide. Ma al centro della sua formazione stava la classicità greca e latina: Omero, i tragici, Ovidio. Nei suoi "Dialoghi con Leucò" questa eredità si fonde con la sua disperata modernità, segno di una mente che cercava continuamente archetipi e corrispondenze.

Il gesto del 27 agosto 1950 non può essere ridotto a semplice esito di una delusione amorosa, pur se la mancata relazione con l’attrice americana Constance Dowling ebbe un ruolo scatenante. La verità è che Pavese aveva fatto della scrittura l’unico vero luogo di appartenenza, e quando anche quella non bastò più a salvarlo, scelse il silenzio.
Riletti oggi, i suoi libri non smettono di parlare. Non tanto perché descrivono l’Italia di un’epoca di passaggio — dal fascismo alla Repubblica, dalla campagna arcaica alla modernità urbana —, quanto perché danno voce a una condizione esistenziale che non ha tempo: la fatica di vivere, la sete di senso, l’impossibilità di essere consolati. Pavese è rimasto lo scrittore della solitudine e del desiderio inappagato, ma proprio per questo continua a essere un compagno segreto per generazioni di lettori.

Il biglietto che lasciò sul comodino dell’albergo non fu solo un congedo, ma la conferma che vita e letteratura, per lui, non erano mai state due cose separate. Il suo ultimo romanzo, le sue ultime poesie, i suoi appunti di diario, parlano ancora oggi con una sincerità che nessuna retorica può attenuare. Forse è in questo che risiede la sua grandezza: nell’essere stato fino alla fine un uomo nudo di fronte alla propria verità.