Sezioni
Edizioni locali
23/08/2025 ore 18.01
Cultura

Dalla Calabria alla grande letteratura: Mario La Cava e la sua lotta contro fascismo, ipocrisia e immobilismo

L’autore bovalinese denunciò vizi, contraddizioni e silenzi di un’epoca, dando voce a un Sud emarginato e facendone il simbolo delle ferite dell’Italia moderna

di Alessandro Gaudio

Mario La Cava nasce a Bovalino nel 1908 e lì morirà ottant'anni dopo. Proveniente da una famiglia della media borghesia, era figlio unico di Rocco e Marianna Procopio. Il padre era maestro elementare e piccolo proprietario terriero, mentre la madre, casalinga e di modesta istruzione, possedeva un talento naturale per la scrittura. Con il sostegno del figlio riuscì a pubblicare, nel 1938, alcune pagine sulla rivista «Letteratura» e, più tardi, nel 1962, l’intero volume Diario e altri scritti per i tipi di Rebellato.

Fin dai primi anni di formazione, La Cava manifestò un marcato interesse per gli studi umanistici, inclinazione dovuta in parte all’ambiente familiare. Lo zio paterno Francesco, medico di professione, univa alle competenze scientifiche la passione per le arti. Fu lui a sostenere di aver individuato l’autoritratto del volto di Michelangelo all’interno del Giudizio universale, tesi che illustrò nel volume Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio Finale (Zanichelli, 1925).
Oltre alla madre e allo zio, un’altra figura significativa fu Francesco Perri, che La Cava stimava profondamente. Perri, scrittore impegnato e attento alla condizione dell’emigrazione meridionale, si era fatto conoscere negli anni in cui La Cava era ancora adolescente, distinguendosi per la sua opposizione al fascismo.

L’infanzia e la giovinezza di La Cava furono costantemente orientate verso la letteratura. Dopo aver frequentato il liceo-ginnasio di Reggio Calabria e conseguito la maturità, intraprese a Roma gli studi in Medicina, scelta dovuta soprattutto alla volontà dei familiari, che lo avrebbero voluto medico o avvocato. Nel 1929, dopo tre anni, abbandonò Medicina per iscriversi a Giurisprudenza a Siena, dove ottenne la laurea nel 1931. La Cava fece, così, ritorno a Bovalino. Non intraprese mai la carriera forense, dedicandosi interamente alla sua vocazione di scrittore.

Un incontro decisivo avvenne nel 1928, a Bovalino, con Ernesto Buonaiuti, sacerdote, filosofo e storico, scomunicato per le sue posizioni moderniste ed espulso dall’università per la sua opposizione al fascismo. Giunto in Calabria per ricerche su Gioacchino da Fiore e ospitato dallo zio Francesco, Buonaiuti incoraggiò La Cava a coltivare concretamente la vocazione per la scrittura. In quegli stessi anni, dopo il '28, legge Croce e Verga, ma anche Tozzi, Montale, Vittorini, Moravia, Alvaro, Proust e Joyce. Le sue letture comprendevano senz'altro il verismo, ma ne sfondavano le barriere, fino ad abbracciare il decadentismo europeo.

La Cava indaga sull'uomo, come in quegli stessi anni fanno autori come Giovanna Gulli, Fortunato Seminara e Corrado Alvaro. Nei suoi scritti non c'è protesta diretta, ma viene prospettato uno spazio ulteriore di confronto e di libertà, che spesso ha i toni dell'ironia, per mezzo del quale reagire a immobilismo, boria e miseria. Il momento storico vede anche il disfacimento del romanzo e del personaggio, aspetti che La Cava terrà in grande considerazione all'interno delle sue opere.
Sono gli anni del fascismo e tutto è ammuffito e angusto: il mondo è dominato da una borghesia terriera che garantisce solo per sé stessa, ogni progetto di vita civile ha estromesso e reso ulteriormente periferico il cosmo contadino. Così, La Cava coglie la psicologia frantumata di queste masse umiliate e rappresenta i tipi umani servendosi dei “caratteri”, genere a metà tra l'apologo e l'epigramma.

E Caratteri è il titolo del suo libro più celebre, uscito per Le Monnier nel 1939: è una raccolta di 354 ritratti brevi di uomini che oscillano tra speranza e disperazione, colti in situazioni di vita reale. Sono dei condensati della “soffocante mediocrità” della degradata provincia calabrese, scritti in una lingua ricca delle forme gergali e delle espressioni dialettali tipiche della locride. Nel 1953 Einaudi, all’interno della collana «I gettoni», darà alle stampe una nuova edizione dei Caratteri – seguita da una terza nel 1980 e da una quarta ristampa, curata da Donzelli, nel 1999 – che risulta completa rispetto alla precedente, parzialmente censurata. In questa versione compaiono descrizioni inedite e alcune parti originarie vengono sostituite.

Solo negli anni cinquanta La Cava tornerà a pubblicare: prima, nel 1952, una raccolta di scritti giornalistici intitolata I misteri della Calabria, poi Colloqui con Antonuzza, Le memorie del vecchio maresciallo e Mimì Cafiero, pubblicati tra il 1954 e il '59, che segnano il suo progressivo avvicinamento e la conversione definitiva al romanzo.
Il protagonista di Mimì Cafiero (notevoli davvero i vorticosi dialoghi presenti nel romanzo) è un proprietario terriero, zotico e dedito ai piaceri del sesso, che nasconde il vuoto della sua vita rappresentato principalmente dal fascismo e dalla sua retorica. Il fascismo è ancora la forza ostile da combattere in Vita di Stefano, romanzo del 1962 il cui protagonista è un giovane operaio disoccupato e incapace di realizzare le proprie idee, non potendo contare neanche sul supporto della famiglia. Morirà in un incidente motociclistico come muore gran parte dei vinti di La Cava per le contraddizioni e gli ostacoli della vita.

Anche la produzione successiva, da Una storia d'amore, del 1973, passando per I fatti di Casignana, dedicato alle ragioni della sconfitta del movimento contadino, e La ragazza del vicolo scuro e diversi reportage e volumi di impressioni di viaggio (uno, Viaggio in Lucania, veramente notevole), mette in relazione la rappresentazione della realtà a una disposizione psicologica complicata che avvicina la proposta di La Cava al respiro di Tozzi, Svevo e Piovene e gli consente di oltrepassare i motivi del naturalismo regionale “verso un mare più aperto”, ha detto Antonio Piromalli.

Negli ultimi anni della sua vita, La Cava intensificò la riflessione sui meccanismi interiori che muovono i personaggi, affinando una scrittura che si muove tra la tensione analitica e l’osservazione minuta del reale. La sua prosa, apparentemente lineare, si alimenta di una costante attenzione ai dettagli linguistici e di una precisa costruzione narrativa, volta a far emergere le incrinature dell’esistenza. Non abbandona mai la provincia calabrese come scenario privilegiato: non tanto per un radicamento campanilistico, quanto per la consapevolezza che in quel microcosmo si riflettano, amplificati, i conflitti e le contraddizioni della società italiana del Novecento.

Parallelamente alla narrativa, proseguì un’intensa attività giornalistica e saggistica, collaborando con diverse testate e continuando a indagare i temi a lui più cari: la memoria storica, le trasformazioni del mondo rurale, l’ipocrisia e l’inerzia della classe dirigente, le tensioni tra vecchi e nuovi modelli di vita. Il tono ironico e disincantato, che già caratterizzava i Caratteri, restò una costante, così come l’inclinazione a tratteggiare figure in bilico tra la tragicità del destino e la sottile ironia delle debolezze umane.

La morte, sopraggiunta a Bovalino nel 1988, segna la fine di un percorso coerente, animato dalla costante volontà di dare voce, anche nei diversi volumi usciti postumi, a un Sud marginalizzato, ai suoi protagonisti minori e alle insanabili contraddizioni del mondo contadino e piccolo-borghese di cui fanno parte.
Il lascito di Mario La Cava si colloca così nella linea di quegli scrittori che hanno saputo raccontare la provincia italiana con lucidità e rigore, proiettando la loro esperienza locale in un orizzonte letterario di respiro più ampio. La Cava consegna di sé l’immagine di uno scrittore che si pone nella scia di una tradizione capace di attingere al passato per trarne motivi civili e culturali ancora vitali, liberando l’idea di classicismo da ogni connotazione ristretta e trasformandola in uno strumento per interpretare il presente.

Il valore attribuito a ciò che proviene da lontano e continua a parlare al nostro tempo, insieme alla volontà di custodire e rinnovare un’eredità culturale in equilibrio con l’attualità, costituiscono forse l’insegnamento più duraturo per il lettore contemporaneo. In un’epoca smemorata, che cancella rapidamente le proprie tracce per inseguire incessantemente nuove urgenze, la lezione lacaviana invita a un rapporto più consapevole con il tempo e con la memoria.