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03/09/2025 ore 21.05
Cultura

Enzo Agostino, il poeta calabrese che indagò l’abisso più profondo dell’anima

Dell’intellettuale nato alla fine degli anni Trenta sono state pubblicate solo due sillogi, Coccia nt'o' gramoni e Inganni del tempo. Nei suoi versi, il rassegnarsi all'eterno capriccio della vita che non sempre fa ben quadrare i conti e spesso altera le colonne del dare e dell'avere

di Alessandro Gaudio

Di Enzo Agostino, poeta nato a Gioiosa Jonica nel 1937, sono state pubblicate solo due sillogi, entrambe per le Edizioni Polistampa di Firenze: una nel suo dialetto, intitolata Coccia nt'o' gramoni (nel 2003, anno della sua morte), e una in italiano, intitolata Inganni del tempo (nel 2004). In appendice a quest'ultima è possibile leggere un interessante testo in prosa, Uno come me, costituito da frammenti di lettere che Agostino spedì negli ultimi anni della sua vita all'amica Giovanna Fozzer e dal quale è possibile trarre un'immagine non banale della Calabria, oltre che un'indicazione chiara di quello che potrebbe essere il modo migliore per rapportarsi a essa.

Il punto di vista è quello di un novello Zaccheo, mai sceso dal sicomòro, nel tentativo di trovare il proprio cielo sul ramo più alto dell'albero. Al di là del riferimento biblico, si tratta di una prospettiva pienamente laica, di uno Zaccheo senza Cristo che prende atto dell'incertezza della sua sorte, della sua condizione di derelitto al quale, con ossessiva monotonia, viene negata anche la dannazione: «qui al Sud – spiega Agostino, usando una splendida similitudine – il sole ce l'abbiamo verticale come una lama sospesa sui nostri destini». È lo stesso sole annibalico che assedia i balconi, i vasi «devastati da incuria e gramigna» e che grava su un mare geometrico e immobile.

Costretto a navigare senza segnali, senza luci e senza indicazioni nel mare, beffardo, assonnato e opaco, della sua civiltà, il poeta, come Zaccheo, sa che il giorno del giudizio non arriverà mai, che Dio ci ha traditi costringendoci a recitare sempre lo stesso spettacolo. Uno spettacolo fatto di giorni privi di passioni e di tensioni, di riti non più ingenui, di repliche di smarrite tradizioni, di copie di gesti e di momenti persi.

E, allora, ecco che una violenta necessità di interrogarsi, dall'alto dell'albero, consente al contempo di rassegnarsi all'eterno capriccio della vita, che non sempre fa ben quadrare i conti e spesso altera le colonne del dare e dell'avere, e di provare a capirsi, scendendo «nel più profondo abisso del nostro profondo», là dove forse noi stessi abbiamo sepolta quell'anima che non riusciamo più a riconoscerci.